Giuseppe Garibaldi Encontra Vittorio Emanuele II em Teano, Itália (L'Incontro tra Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano) - Sebastiano de Albertis
Teano - Itália
Localização não obtida
OST - Circa 1870
Texto 1:
L'incontro tra Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II, o incontro di Teano, avvenne il 26 ottobre del 1860 ed è l'episodio della storia risorgimentale con il quale si concluse la spedizione dei Mille.
Il re di Sardegna Vittorio Emanuele II aveva occupato i territori pontifici nelle Marche e nell'Umbria ed era andato incontro a Giuseppe Garibaldi, che aveva respinto il tentativo di controffensiva dell'esercito borbonico nella battaglia del Volturno e aveva completato la conquista del Regno delle Due Sicilie.
L'intervento piemontese, sotto il profilo internazionale, aveva lo scopo di impedire che la spedizione continuasse fino alla conquista di Roma, che avrebbe provocato l'intervento di Napoleone III e messo a repentaglio le conquiste effettuate.
Sotto il profilo interno, la questione delle ricadute politiche della spedizione era già stata affacciata nella lettera con cui, nel settembre 1860, Vittorio Emanuele II aveva respinto l'invito dell'Eroe dei due mondi di "licenziare il Ministero" congedando Cavour e Farini
L'incontro avvenne una mattina autunnale molto umida e Garibaldi aveva la testa fasciata alla buona con un fazzoletto colorato e assisteva al passaggio delle truppe piemontesi, quando ad un certo momento si sentì suonare la marcia reale e gridare le parole "Il re! Viene il re!".
Garibaldi ed il suo seguito montarono a cavallo avanzando sul fianco della strada e alla loro vista Vittorio Emanuele II si slanciò per incontrarli, quindi Garibaldi si scoprì la testa fasciata gridando:
«Saluto il primo Re d'Italia ! »
Il re allungò la mano e Garibaldi fece altrettanto stringendola, i due uomini restarono con le mani unite per più di un minuto.
« Come state, caro Garibaldi? »
« Bene, Maestà, e Lei? »
« Benone.»
Poi i due gruppi di piemontesi e garibaldini procedettero assieme per un certo tratto dialogando in fredda cortesia, quando Garibaldi ed i suoi svoltarono a sinistra ritornando a Calvi, mentre il re proseguiva per Teano.
Garibaldi ottenne che i volontari garibaldini entrassero, dopo una selezione, nell'esercito regolare sardo, con il medesimo grado rivestito nella spedizione e si ritirò a Caprera.
L'incontro ebbe il significato di un'adesione del generale alla politica di Casa Savoia, deludendo le aspettative di coloro che auspicavano la fondazione di una repubblica meridionale di stampo mazziniano, che avrebbe dovuto in seguito estendersi anche ai domini papali, conquistando Roma.
Il luogo dell'incontro è stato riconosciuto tradizionalmente a Teano, presso il ponte di Caianello, odierno ponte San Nicola, nella frazione di Borgonuovo, e l'episodio è conosciuto con il nome di "Incontro di Teano".
La precisa località in cui ebbe luogo l'incontro, essendo avvenuto in campagna, è tuttavia argomento di discussione. Il ponte di Caianello (o di San Nicola) dista meno di 200 metri dal confine del limitrofo Comune di Caianello (costituito da nuclei abitati sparsi e pertanto considerato all'epoca dell'episodio storico decisamente meno importante di Teano), il cui territorio si frappone tra quello di Teano e quello di Vairano Patenora, che rivendica l'appartenenza del luogo in cui è avvenuto l'incontro: secondo altri documenti, infatti, il punto esatto sarebbe individuato dal bivio di Taverna della Catena, nell'abitato dell'odierna Vairano Scalo, frazione del Comune di Vairano Patenora.
Texto 2:
Il 26 ottobre del 1860 si verificò un episodio molto particolare. Giuseppe Garibaldi, che grazie al suo manipolo di mille avventurieri aveva sostanzialmente ultimato la conquista del Regno delle Due Sicilie, incontrò a Teano il monarca sabaudo Vittorio Emanuele II, il quale avendo già occupato i territori pontifici nelle Marche ed in Umbria si affrettò a dirigersi verso sud.
Lo scopo del re era molto preciso e doveva essere conseguito celermente: evitare che Garibaldi e le camicie rosse si spingessero fino a Roma. Se ciò fosse accaduto lo scenario che si sarebbe profilato non avrebbe certamente arriso alla causa piemontese, in quanto sarebbe scattato l’intervento dell’imperatore francese Napoleone III che già da tempo si professava zelante difensore di Sua Santità il Papa Pio IX.
Fu così che Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II s’incontrarono. Il sovrano grazie ai servigi ed alle armi dei garibaldini riuscì ad inglobare tra i possedimenti della sua corona lo stato borbonico; il condottiero nizzardo dopo aver consegnato al re l’autorità sulle regioni meridionali, ottenne che i suoi uomini entrassero nell’esercito regolare sardo conservando il medesimo grado che avevano ottenuto durante la spedizione nel Mezzogiorno d’Italia – promessa che, per inciso, non fu poi mantenuta dal monarca.
Da quel 26 ottobre di 156 anni fa le sorti della penisola non furono più le stesse. Dal momento in cui Garibaldi strappò il Mezzogiorno d’Italia ai Borbone, nel consegnarlo a Vittorio Emanuele II, diede iniziò alla storia di un nuovo paese. Un’Italia che da lì a poco sarebbe divenuta certamente unitaria, ma che avrebbe avuto dei mali endemici. Divisioni e disomogeneità, oggi come allora, la caratterizzarono. Popoli che tra di loro non avevano nessun punto di contatto e nessuna affinità, si ritrovarono ad indossare le complesse vestigia di una Nazione.
In molti hanno parlato di questo evento e copiosissimi fiumi d’inchiostro sono stati impiegati per consegnarlo ad imperitura memoria, ma altrettanto numerosi sono i dubbi ed i retroscena che contraddistinsero questo avvenimento e che meritano di essere sottoposti alla nostra attenzione.
Ufficialmente si ritiene che l’incontro sia avvenuto per l’appunto a Teano, in provincia di Caserta, presso l’odierno ponte San Nicola. La precisa località, però, è tutt’ora motivo di discussione. Secondo alcuni documenti, infatti, l’incontro avvenne nell’abitato dell’attuale Vairano Scalo, frazione del comune di Vairano Patenora. Gli storici risorgimentali avrebbero scelto di collocare l’incontro a Teano, perché già all’epoca la città vantava un prestigio maggiore rispetto al semplice agglomerato di casupole dove Garibaldi e Vittorio Emanuele II si sarebbero, effettivamente, ritrovati.
Vairano Scalo non poteva quindi fungere da cornice per un evento di tale portata. L’efficace lavoro di esaltazione portato avanti dalla storiografia era iniziato per motivazioni che potremmo definire “geografiche”, ma ammesso e non concesso che questo cambio di location ci sia stato, la mitizzazione dell’evento che stiamo trattando era tutt’altro che terminata.
Il fatto che Giuseppe Garibaldi avesse consegnato il Regno delle Due Sicilie a Vittorio Emanuele II deluse le aspettative di chi sperava nell’instaurazione di un regime repubblicano nei territori dell’Italia meridionale, evento che avrebbe consentito una successiva avanzata militare verso Roma per porre fine al potere temporale di Pio IX. È molto interessante notare che probabilmente i “repubblicani delusi” avevano dimenticato che Garibaldi, già prima di partire da Quarto alla volta della Sicilia, aveva stipulato un accordo con Vittorio Emanuele II.
Il generale era al soldo di casa Savoia, ed il re con la sua venuta in Campania altro non fece che far valere la parte dell’accordo che lo favoriva, pose fine alle “fatiche” del suo sottoposto, sollevandolo da ogni incarico. A questo punto i servigi di Garibaldi non erano più necessari ed i Mille avevano fatto il loro tempo. Il monarca sabaudo non solo si precipitò a mettere le mani sull’ex stato borbonico e le sue ricchezze, ma con una mossa estremamente astuta esautorò, di fatto, Garibaldi, gettando acqua su ogni eventuale miccia che mille avventurieri in armi avrebbero potuto facilmente innescare.
Quello che viene considerato uno degli episodi centrali della storia del Risorgimento, in buona sostanza, altro non fu che una mossa preventiva di un re che, una volta raggiunto il suo scopo, non aveva più bisogno di un generale troppo scomodo ed eccessivamente potente. Quella di Vittorio Emanuele II fu una vera dimostrazione di forza che mise a nudo l’ambiguità e la precarietà sulle quali vertevano i rapporti tra due delle più importanti figure dell’Ottocento italiano, che hanno ricoperto un ruolo di primo piano nel processo che portò all’unità d’Italia. La storiografia però ha magistralmente taciuto queste problematiche, preoccupandosi solo di conferire al tutto un’aurea di esasperata miticità.
La storia dell’Italia unita è confusa, mistificata, e lo è pure sulla località casertana dell’incontro del 26 ottobre 1860 tra Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II di Savoia, quando tutto ebbe inizio. I libri di storia riportano Teano, che in realtà è il luogo in cui i due si salutarono dopo aver cavalcato insieme. Il saluto d’incontro, invece, avvenne al Quadrivio della Catena, nei pressi di Caianello, dove prese il via la storica passeggiata a cavallo. Vairano Patenora, l’attuale comune in cui si trova il Quadrivio, festeggia il patriottico incontro, ma Teano continua a ritenersi il luogo dell’incontro e non quello del commiato. È annosa la disputa tra due comuni meridionali che si contendono il luogo in cui il Meridione fu conquistato dai piemontesi. In realtà, festeggiare sembra che interessi solo a Vairano e Teano, poiché nessun capo di Stato e nessun primo ministro ha mai presenziato alle loro celebrazioni per dire «qui è nata l’Italia». Del resto, l’edificio davanti al quale si incrociarono Garibaldi e Vittorio Emanuele II, la Taverna della Catena, è un monumento nazionale presentabile solo in facciata, mentre alle spalle è tutto un rudere in rovina che non interessa a nessuno, neanche ai proprietari, una famiglia di Napoli di cui fa parte l’olimpionico di canottaggio Davide Tizzano.
L’episodio è detto “incontro”, ma fu uno scontro tra un generale irregolare e un re invasore. L’occasione significò, a tutti gli effetti, il licenziamento di Garibaldi, al quale fu intimato di farsi da parte e tornarsene a Caprera poiché il Regno delle Due Sicilie, con una sovranità e una monarchia italiana legittime, era stato ormai occupato dai Mille con l’operazione massonica della sommossa popolare di carattere rivoluzionario e Vittorio Emanuele II doveva proseguire l’operazione unitaria in modo legittimo, secondo le volontà francesi e inglesi.
Tutt’altro che amichevole fu l’incontro, e si svolse in un’atmosfera tesissima. Garibaldi veniva da Napoli, dove aveva assicurato la corretta riuscita della farsa del plebiscito per l’annessione del Sud al Regno di Sardegna, che i Piemontesi ben sapevano non essere volontà della gran maggioranza delle popolazioni meridionali. Non era neanche la loro, in verità, al netto degli interessi in ballo, sprecandosi le eloquenti corrispondenze private tra gli uomini di governo in cui si discuteva della prossima unificazione. In una di queste, datata 17 ottobre 1860, il torinese Massimo d’Azeglio, governatore della provincia di Milano, aveva scritto al patriota Diomede Pantaleoni: “Ma in tutti i modi la fusione coi napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso!”. La contraffatta consultazione, pilotata dai brogli di Filippo Curletti, capo dell’intelligence di Cavour, e vigilata dai camorristi assoldati da Garibaldi per garantire l’ordine pubblico, si era svolta nella gran sala del Real Museo Mineralogico della Regia Università, nella strada di Mezzocannone, e aveva sancito la consegna del Sud ai Savoia al culmine della spedizione garibaldina, anch’essa garantita da ingenti finanziamenti dei britannici, interessati a defenestrare il Borbone per addomesticare l’Italia nell’imminenza dell’apertura del Canale di Suez. Il massone e anticlericale Garibaldi avrebbe voluto spingersi fino a Roma e allontanare anche il Papa con tutto il potere temporale, ma non aveva fatto i conti con la volontà di Napoleone III di difendere Pio IX. E perciò Cavour, costretto a obbedire alle volontà francesi, aveva mandato Vittorio Emanuele II in persona a fermare Garibaldi a Napoli, non necessitando dal nizzardo più di quanto non avesse già fatto.
Se avesse potuto, il condottiero delle camicie rosse avrebbe mandato al diavolo il Re di Sardegna, il quale, tra l’altro, da nord, arrivò al Quadrivio della Catena in anticipo, in compagnia di Farini e Fanti, cioè due tra gli uomini che più odiavano Garibaldi e che Garibaldi più odiava, e ingannò tempo e fame bivaccando nella Taverna della Catena, lì presente. Quando il Generale arrivò, salutò urlando «ecco il Re d’Italia», come a sottolineare che il sovrano di un piccolo stato lo stava diventando dell’intera Penisola grazie a lui. Il piemontese si rifiutò di passare in rassegna il seguito garibaldino, e i due iniziarono a passeggiare a cavalli affiancati in direzione di Teano, mentre il Savoia chiariva le modalità di chiusura dell’opera garibaldina.
Il 6 novembre, Garibaldi sciolse il suo esercito, non prima di aver schierato in riga tutti i suoi uomini davanti alla saccheggiata Reggia di Caserta, sperando di poter ricevere gli onori da quel re al quale aveva regalato il Mezzogiorno. L’attesa durò ore, e fu vana, poiché Vittorio Emanuele II puntò direttamente su Napoli. Garibaldi lo raggiunse più adirato che mai, e il giorno seguente, dopo un’asprissima discussione, sfilò con lui in carrozza lungo le strade della Capitale borbonica occupata, sotto una fitta e profetica pioggia. Garibaldi aveva chiesto di essere nominato viceré dell’Italia meridionale, ottenendo rifiuto, e aveva rifiutato, a sua volta, di diventare generale dell’esercito piemontese.
Il Generale abbandonò Napoli per Caprera il 9 novembre, dopo aver salutato privatamente l’ammiraglio Kodney Mundy sull’incombente nave da guerra inglese Hannibal, ringraziandolo per il decisivo aiuto ricevuto dal regno britannico. Il Re di Sardegna, invece, lasciò la città solo il 26 dicembre, una volta accertatosi che le operazioni belliche nella decisiva battaglia di Gaeta volgevano a favore dell’esercito piemontese. Il consistente contributo britannico alla caduta del Regno delle Due Sicilie, un ingente finanziamento in piastre turche proveniente dalle massonerie britanniche per favorire l’arrendevolezza di gran parte degli ufficiali borbonici e delle alte cariche civili duosiciliane, era tracciato nel rendiconto della scottante contabilità della spedizione dei Mille gestita dal malcapitato Ippolito Nievo, scomparso nel nulla con la misteriosa esplosione del vapore Ercole la notte tra il 4 e il 5 marzo 1861 mentre era in navigazione da Palermo a Torino.
Dopo circa tre anni, nel 1863, il torinese d’Azeglio, nella prefazione a “I miei ricordi”, scrisse: “pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani”. Colui che con il “vaiuoloso” napoletano non avrebbe mai voluto avere nulla in comune individuò l’inevitabile fallimento dell’unificazione. I massoni posti a scrivere la nuova cultura patriottica, manipolando gli eventi e le parole, cambiarono quella frase per nascondere intenti e anche limiti dell’unificazione, trasformandola così: “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. E così tutti la conoscono. E invece, quello di d’Azeglio fu tutt’altro che un invito al miglioramento, bensì la constatazione dell’invalicabile limite dell’Unità: l’impossibilità di creare l’italiano, il popolo unico e unito educato all’etica massonica e disincagliato dall’ignoranza della fede cattolica.
Garibaldi non fece segreto della gratitudine per i Fratelli di Gran Bretagna, cui diede libera manifestazione nell’aprile del 1864, recandosi a Londra per ricevere la cittadinanza onoraria. Fu accolto dal delirio di una folla straripante, un milione di persone lungo le strade percorse dalla sua carrozza, e al Crystal Palace, durante una delle tante tappe del suo viaggio, per rispondere alle dimostrazioni di simpatia, pubblicamente dichiarò: «Senza l’aiuto di lord Palmerston, Napoli sarebbe ancora sotto i Borbone; senza l’ammiraglio Mundy, io non avrei giammai potuto passare lo stretto di Messina. Se l’Inghilterra si dovesse un giorno trovare in pericolo, l’Italia si batterà per essa». Si rese conto anche lui di cos’era l’Italia dei Savoia, dimettendosi dalla carica di deputato al Parlamento nel settembre del 1868, disgustato per la condotta del Governo della Destra nei confronti del Mezzogiorno. In una lettera scritta per chiarire il suo disimpegno alla rammaricata patriota Adelaide Cairoli, il nizzardo si mostrò pentito del suo apporto alla causa sabauda in alcuni significativi passaggi: “[…] E mi vergogno certamente di avere contato, per tanto tempo, nel novero di un’assemblea di uomini destinata in apparenza a fare il bene del paese, ma in realtà condannata a sancire l’ingiustizia, il privilegio e la prostituzione! […] Ebbene, esse [le popolazioni meridionali] maledicono oggi coloro, che li sottrassero dal giogo di un dispotismo, che almeno non li condannava all’inedia per rigettarli sopra un dispotismo più orrido assai, più degradante e che li spinge a morire di fame. Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genìa che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano, sognato dai buoni di tutte le generazioni e miracolosamente iniziato”.
Ecco il resoconto del garibaldino Alberto Mario sull’incontro di Teano:
“Il re, coll’assisa (uniforme) di generale, montava un cavallo arabo. Lo seguiva un codazzo di generali, di ciambellani, di servitori: tutta gente avversa a Garibaldi, a codesto plebeo donator di regni. Disotto al cappellino, Garibaldi s’era acconciato il fazzoletto di seta per proteggere le orecchie e le tempie dalla mattutina umidità. All’arrivo del re, cavatosi il cappellino, rimase il fazzoletto. Il re gli stese la mano dicendo:
<<Oh, vi saluto, caro Garibaldi, come state?>>
E Garibaldi: <<Bene Maestà e Lei?>>
E il re: <<Benone!>>
Garibaldi, alzando la voce e girando gli occhi, come chi parla alle turbe, gridò:
<<Viva il Re d’Italia!>>
E i circostanti: <<Viva il re!>>
Vittorio Emanuele, trattosi in disparte, si intrattenne per qualche tempo a colloquio col Generale. Indi si mosse…Al ponte di un torrentello che tocca Teano, Garibaldi fece di cappello al re; questi proseguì sulla strada suburbana, quegli passò il ponte, e separandosi l’un l’altro ad angolo retto. Noi seguimmo Garibaldi, i regi il re.”
Dopo l’incontro il re si ferma a Teano mentre il generale ritorna fra i suoi sul Volturno. A Jessie White, moglie del patriota Alberto Mario e fautrice della causa italiana, Garibaldi confida amareggiato: “Jessie, ci hanno messi alla coda”.
Il 26 ottobre del 1860 si verificò un episodio molto particolare. Giuseppe Garibaldi, che grazie al suo manipolo di mille avventurieri aveva sostanzialmente ultimato la conquista del Regno delle Due Sicilie, incontrò a Teano il monarca sabaudo Vittorio Emanuele II, il quale avendo già occupato i territori pontifici nelle Marche ed in Umbria si affrettò a dirigersi verso sud.
Lo scopo del re era molto preciso e doveva essere conseguito celermente: evitare che Garibaldi e le camicie rosse si spingessero fino a Roma. Se ciò fosse accaduto lo scenario che si sarebbe profilato non avrebbe certamente arriso alla causa piemontese, in quanto sarebbe scattato l’intervento dell’imperatore francese Napoleone III che già da tempo si professava zelante difensore di Sua Santità il Papa Pio IX.
Fu così che Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II s’incontrarono. Il sovrano grazie ai servigi ed alle armi dei garibaldini riuscì ad inglobare tra i possedimenti della sua corona lo stato borbonico; il condottiero nizzardo dopo aver consegnato al re l’autorità sulle regioni meridionali, ottenne che i suoi uomini entrassero nell’esercito regolare sardo conservando il medesimo grado che avevano ottenuto durante la spedizione nel Mezzogiorno d’Italia – promessa che, per inciso, non fu poi mantenuta dal monarca.
Da quel 26 ottobre di 156 anni fa le sorti della penisola non furono più le stesse. Dal momento in cui Garibaldi strappò il Mezzogiorno d’Italia ai Borbone, nel consegnarlo a Vittorio Emanuele II, diede iniziò alla storia di un nuovo paese. Un’Italia che da lì a poco sarebbe divenuta certamente unitaria, ma che avrebbe avuto dei mali endemici. Divisioni e disomogeneità, oggi come allora, la caratterizzarono. Popoli che tra di loro non avevano nessun punto di contatto e nessuna affinità, si ritrovarono ad indossare le complesse vestigia di una Nazione.
In molti hanno parlato di questo evento e copiosissimi fiumi d’inchiostro sono stati impiegati per consegnarlo ad imperitura memoria, ma altrettanto numerosi sono i dubbi ed i retroscena che contraddistinsero questo avvenimento e che meritano di essere sottoposti alla nostra attenzione.
Ufficialmente si ritiene che l’incontro sia avvenuto per l’appunto a Teano, in provincia di Caserta, presso l’odierno ponte San Nicola. La precisa località, però, è tutt’ora motivo di discussione. Secondo alcuni documenti, infatti, l’incontro avvenne nell’abitato dell’attuale Vairano Scalo, frazione del comune di Vairano Patenora. Gli storici risorgimentali avrebbero scelto di collocare l’incontro a Teano, perché già all’epoca la città vantava un prestigio maggiore rispetto al semplice agglomerato di casupole dove Garibaldi e Vittorio Emanuele II si sarebbero, effettivamente, ritrovati.
Vairano Scalo non poteva quindi fungere da cornice per un evento di tale portata. L’efficace lavoro di esaltazione portato avanti dalla storiografia era iniziato per motivazioni che potremmo definire “geografiche”, ma ammesso e non concesso che questo cambio di location ci sia stato, la mitizzazione dell’evento che stiamo trattando era tutt’altro che terminata.
Il fatto che Giuseppe Garibaldi avesse consegnato il Regno delle Due Sicilie a Vittorio Emanuele II deluse le aspettative di chi sperava nell’instaurazione di un regime repubblicano nei territori dell’Italia meridionale, evento che avrebbe consentito una successiva avanzata militare verso Roma per porre fine al potere temporale di Pio IX. È molto interessante notare che probabilmente i “repubblicani delusi” avevano dimenticato che Garibaldi, già prima di partire da Quarto alla volta della Sicilia, aveva stipulato un accordo con Vittorio Emanuele II.
Il generale era al soldo di casa Savoia, ed il re con la sua venuta in Campania altro non fece che far valere la parte dell’accordo che lo favoriva, pose fine alle “fatiche” del suo sottoposto, sollevandolo da ogni incarico. A questo punto i servigi di Garibaldi non erano più necessari ed i Mille avevano fatto il loro tempo. Il monarca sabaudo non solo si precipitò a mettere le mani sull’ex stato borbonico e le sue ricchezze, ma con una mossa estremamente astuta esautorò, di fatto, Garibaldi, gettando acqua su ogni eventuale miccia che mille avventurieri in armi avrebbero potuto facilmente innescare.
Quello che viene considerato uno degli episodi centrali della storia del Risorgimento, in buona sostanza, altro non fu che una mossa preventiva di un re che, una volta raggiunto il suo scopo, non aveva più bisogno di un generale troppo scomodo ed eccessivamente potente. Quella di Vittorio Emanuele II fu una vera dimostrazione di forza che mise a nudo l’ambiguità e la precarietà sulle quali vertevano i rapporti tra due delle più importanti figure dell’Ottocento italiano, che hanno ricoperto un ruolo di primo piano nel processo che portò all’unità d’Italia. La storiografia però ha magistralmente taciuto queste problematiche, preoccupandosi solo di conferire al tutto un’aurea di esasperata miticità.
La storia dell’Italia unita è confusa, mistificata, e lo è pure sulla località casertana dell’incontro del 26 ottobre 1860 tra Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II di Savoia, quando tutto ebbe inizio. I libri di storia riportano Teano, che in realtà è il luogo in cui i due si salutarono dopo aver cavalcato insieme. Il saluto d’incontro, invece, avvenne al Quadrivio della Catena, nei pressi di Caianello, dove prese il via la storica passeggiata a cavallo. Vairano Patenora, l’attuale comune in cui si trova il Quadrivio, festeggia il patriottico incontro, ma Teano continua a ritenersi il luogo dell’incontro e non quello del commiato. È annosa la disputa tra due comuni meridionali che si contendono il luogo in cui il Meridione fu conquistato dai piemontesi. In realtà, festeggiare sembra che interessi solo a Vairano e Teano, poiché nessun capo di Stato e nessun primo ministro ha mai presenziato alle loro celebrazioni per dire «qui è nata l’Italia». Del resto, l’edificio davanti al quale si incrociarono Garibaldi e Vittorio Emanuele II, la Taverna della Catena, è un monumento nazionale presentabile solo in facciata, mentre alle spalle è tutto un rudere in rovina che non interessa a nessuno, neanche ai proprietari, una famiglia di Napoli di cui fa parte l’olimpionico di canottaggio Davide Tizzano.
L’episodio è detto “incontro”, ma fu uno scontro tra un generale irregolare e un re invasore. L’occasione significò, a tutti gli effetti, il licenziamento di Garibaldi, al quale fu intimato di farsi da parte e tornarsene a Caprera poiché il Regno delle Due Sicilie, con una sovranità e una monarchia italiana legittime, era stato ormai occupato dai Mille con l’operazione massonica della sommossa popolare di carattere rivoluzionario e Vittorio Emanuele II doveva proseguire l’operazione unitaria in modo legittimo, secondo le volontà francesi e inglesi.
Tutt’altro che amichevole fu l’incontro, e si svolse in un’atmosfera tesissima. Garibaldi veniva da Napoli, dove aveva assicurato la corretta riuscita della farsa del plebiscito per l’annessione del Sud al Regno di Sardegna, che i Piemontesi ben sapevano non essere volontà della gran maggioranza delle popolazioni meridionali. Non era neanche la loro, in verità, al netto degli interessi in ballo, sprecandosi le eloquenti corrispondenze private tra gli uomini di governo in cui si discuteva della prossima unificazione. In una di queste, datata 17 ottobre 1860, il torinese Massimo d’Azeglio, governatore della provincia di Milano, aveva scritto al patriota Diomede Pantaleoni: “Ma in tutti i modi la fusione coi napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso!”. La contraffatta consultazione, pilotata dai brogli di Filippo Curletti, capo dell’intelligence di Cavour, e vigilata dai camorristi assoldati da Garibaldi per garantire l’ordine pubblico, si era svolta nella gran sala del Real Museo Mineralogico della Regia Università, nella strada di Mezzocannone, e aveva sancito la consegna del Sud ai Savoia al culmine della spedizione garibaldina, anch’essa garantita da ingenti finanziamenti dei britannici, interessati a defenestrare il Borbone per addomesticare l’Italia nell’imminenza dell’apertura del Canale di Suez. Il massone e anticlericale Garibaldi avrebbe voluto spingersi fino a Roma e allontanare anche il Papa con tutto il potere temporale, ma non aveva fatto i conti con la volontà di Napoleone III di difendere Pio IX. E perciò Cavour, costretto a obbedire alle volontà francesi, aveva mandato Vittorio Emanuele II in persona a fermare Garibaldi a Napoli, non necessitando dal nizzardo più di quanto non avesse già fatto.
Se avesse potuto, il condottiero delle camicie rosse avrebbe mandato al diavolo il Re di Sardegna, il quale, tra l’altro, da nord, arrivò al Quadrivio della Catena in anticipo, in compagnia di Farini e Fanti, cioè due tra gli uomini che più odiavano Garibaldi e che Garibaldi più odiava, e ingannò tempo e fame bivaccando nella Taverna della Catena, lì presente. Quando il Generale arrivò, salutò urlando «ecco il Re d’Italia», come a sottolineare che il sovrano di un piccolo stato lo stava diventando dell’intera Penisola grazie a lui. Il piemontese si rifiutò di passare in rassegna il seguito garibaldino, e i due iniziarono a passeggiare a cavalli affiancati in direzione di Teano, mentre il Savoia chiariva le modalità di chiusura dell’opera garibaldina.
Il 6 novembre, Garibaldi sciolse il suo esercito, non prima di aver schierato in riga tutti i suoi uomini davanti alla saccheggiata Reggia di Caserta, sperando di poter ricevere gli onori da quel re al quale aveva regalato il Mezzogiorno. L’attesa durò ore, e fu vana, poiché Vittorio Emanuele II puntò direttamente su Napoli. Garibaldi lo raggiunse più adirato che mai, e il giorno seguente, dopo un’asprissima discussione, sfilò con lui in carrozza lungo le strade della Capitale borbonica occupata, sotto una fitta e profetica pioggia. Garibaldi aveva chiesto di essere nominato viceré dell’Italia meridionale, ottenendo rifiuto, e aveva rifiutato, a sua volta, di diventare generale dell’esercito piemontese.
Il Generale abbandonò Napoli per Caprera il 9 novembre, dopo aver salutato privatamente l’ammiraglio Kodney Mundy sull’incombente nave da guerra inglese Hannibal, ringraziandolo per il decisivo aiuto ricevuto dal regno britannico. Il Re di Sardegna, invece, lasciò la città solo il 26 dicembre, una volta accertatosi che le operazioni belliche nella decisiva battaglia di Gaeta volgevano a favore dell’esercito piemontese. Il consistente contributo britannico alla caduta del Regno delle Due Sicilie, un ingente finanziamento in piastre turche proveniente dalle massonerie britanniche per favorire l’arrendevolezza di gran parte degli ufficiali borbonici e delle alte cariche civili duosiciliane, era tracciato nel rendiconto della scottante contabilità della spedizione dei Mille gestita dal malcapitato Ippolito Nievo, scomparso nel nulla con la misteriosa esplosione del vapore Ercole la notte tra il 4 e il 5 marzo 1861 mentre era in navigazione da Palermo a Torino.
Dopo circa tre anni, nel 1863, il torinese d’Azeglio, nella prefazione a “I miei ricordi”, scrisse: “pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani”. Colui che con il “vaiuoloso” napoletano non avrebbe mai voluto avere nulla in comune individuò l’inevitabile fallimento dell’unificazione. I massoni posti a scrivere la nuova cultura patriottica, manipolando gli eventi e le parole, cambiarono quella frase per nascondere intenti e anche limiti dell’unificazione, trasformandola così: “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. E così tutti la conoscono. E invece, quello di d’Azeglio fu tutt’altro che un invito al miglioramento, bensì la constatazione dell’invalicabile limite dell’Unità: l’impossibilità di creare l’italiano, il popolo unico e unito educato all’etica massonica e disincagliato dall’ignoranza della fede cattolica.
Garibaldi non fece segreto della gratitudine per i Fratelli di Gran Bretagna, cui diede libera manifestazione nell’aprile del 1864, recandosi a Londra per ricevere la cittadinanza onoraria. Fu accolto dal delirio di una folla straripante, un milione di persone lungo le strade percorse dalla sua carrozza, e al Crystal Palace, durante una delle tante tappe del suo viaggio, per rispondere alle dimostrazioni di simpatia, pubblicamente dichiarò: «Senza l’aiuto di lord Palmerston, Napoli sarebbe ancora sotto i Borbone; senza l’ammiraglio Mundy, io non avrei giammai potuto passare lo stretto di Messina. Se l’Inghilterra si dovesse un giorno trovare in pericolo, l’Italia si batterà per essa». Si rese conto anche lui di cos’era l’Italia dei Savoia, dimettendosi dalla carica di deputato al Parlamento nel settembre del 1868, disgustato per la condotta del Governo della Destra nei confronti del Mezzogiorno. In una lettera scritta per chiarire il suo disimpegno alla rammaricata patriota Adelaide Cairoli, il nizzardo si mostrò pentito del suo apporto alla causa sabauda in alcuni significativi passaggi: “[…] E mi vergogno certamente di avere contato, per tanto tempo, nel novero di un’assemblea di uomini destinata in apparenza a fare il bene del paese, ma in realtà condannata a sancire l’ingiustizia, il privilegio e la prostituzione! […] Ebbene, esse [le popolazioni meridionali] maledicono oggi coloro, che li sottrassero dal giogo di un dispotismo, che almeno non li condannava all’inedia per rigettarli sopra un dispotismo più orrido assai, più degradante e che li spinge a morire di fame. Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genìa che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano, sognato dai buoni di tutte le generazioni e miracolosamente iniziato”.
Ecco il resoconto del garibaldino Alberto Mario sull’incontro di Teano:
“Il re, coll’assisa (uniforme) di generale, montava un cavallo arabo. Lo seguiva un codazzo di generali, di ciambellani, di servitori: tutta gente avversa a Garibaldi, a codesto plebeo donator di regni. Disotto al cappellino, Garibaldi s’era acconciato il fazzoletto di seta per proteggere le orecchie e le tempie dalla mattutina umidità. All’arrivo del re, cavatosi il cappellino, rimase il fazzoletto. Il re gli stese la mano dicendo:
<<Oh, vi saluto, caro Garibaldi, come state?>>
E Garibaldi: <<Bene Maestà e Lei?>>
E il re: <<Benone!>>
Garibaldi, alzando la voce e girando gli occhi, come chi parla alle turbe, gridò:
<<Viva il Re d’Italia!>>
E i circostanti: <<Viva il re!>>
Vittorio Emanuele, trattosi in disparte, si intrattenne per qualche tempo a colloquio col Generale. Indi si mosse…Al ponte di un torrentello che tocca Teano, Garibaldi fece di cappello al re; questi proseguì sulla strada suburbana, quegli passò il ponte, e separandosi l’un l’altro ad angolo retto. Noi seguimmo Garibaldi, i regi il re.”
Dopo l’incontro il re si ferma a Teano mentre il generale ritorna fra i suoi sul Volturno. A Jessie White, moglie del patriota Alberto Mario e fautrice della causa italiana, Garibaldi confida amareggiato: “Jessie, ci hanno messi alla coda”.
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