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segunda-feira, 2 de dezembro de 2019
Vista do Rio de Janeiro Tomada da Ilha das Cobras, Rio de Janeiro, Brasil (Vista do Rio de Janeiro Tomada da Ilha das Cobras) - Pieter Godfred Bertichen
Vista do Rio de Janeiro Tomada da Ilha das Cobras, Rio de Janeiro, Brasil (Vista do Rio de Janeiro Tomada da Ilha das Cobras) - Pieter Godfred Bertichen
Rio de Janeiro - RJ
Casa da Marquesa de Santos / Museu da Moda Brasileira, Rio de Janeiro, Brasil
OST - 89x145 - 1845
domingo, 1 de dezembro de 2019
A Tela Santa Praxedes Atribuída a Johannes Vermeer é Realmente Verdadeira ou Uma Falsificação? - Tamara Follesa
A Tela Santa Praxedes Atribuída a Johannes Vermeer é Realmente Verdadeira ou Uma Falsificação? - Tamara Follesa
Artigo
Con la fine dell’estate, approfittando di qualche giornata di
pioggia e momenti di naturale calo lavorativo, ho dedicato il tempo a
disposizione per riprendere in mano diverse faccende, riordinare le carte del
passato, svuotare casse e bauli: fare ordine tra le cose che ci appartengono da
sempre, ma che spesso dimentichiamo, dimenticandoci con essi luoghi, viaggi,
ricordi, momenti vissuti, dialoghi tenuti in lunghi pomeriggi, dibattiti
accademici avuti con straordinari colleghi, amici e mentori, a cui, talvolta è
tempo di ridare ascolto. Sistemando la mia straripante libreria e le casse
piene di volumi e riviste d'Arte, mi sono così imbattuta in un vecchio numero
del "Giornale dell'Arte", in cui, risfogliandolo a distanza di
qualche anno, ha catturato la mia attenzione un articolo dell'Agosto 2014,
sulla preannunciata vendita da Christie's di una "Santa
Prassede" (Olio su tela 101,6 x 82 cm.) proveniente dalla
collezione della mecenate polacca Barbara Piasecka-Johnson datata 1655 e
attribuita a Johannes Vermeer , dipinto presumibilmente agli esordi della sua
carriera artistica. La nota Casa d'Asta, propose una nuova campagna di indagini
condotta dal RijksMuseum con il supporto dell'Università di Amsterdam, che
riportò elementi che ricondurrebbero in maniera incontrovertibile all’ambito
olandese, eppure a discapito del buon esito scientifico, qualcosa sembra ancora
non convincere del tutto studiosi e collezionisti. Così ponendomi alcune
domande, nasce la mia analisi con considerazioni basate su un approfondimento
delle indagini.
L'opera in quella occasione fu proposta per una stima piuttosto
bassa rispetto alla reale convinzione e certezza di un attribuzione che potesse
essere condivisa ed accolta all’ unanimità dalla Comunità Scientifica. Sono
naturalmente propensa a pensare che fu una scelta prudente da parte di
Christie's, permettendo eventualmente così di essere lo stesso mercato
antiquario attraverso il parere di collezionisti esperti e raffinati, a
valutare il reale riconoscimento di paternità dell'opera, ma ahimè, le attese
furono deluse, e la risposta ottenuta non soddisfò le aspettative.
L'opera fu stimata tra 6.000.000 – 8.000.000 di Sterline, e aggiudicata per
“soli” 6.242.500 Sterline, poco al di sopra della stima minima proposta.
Il corpus pittorico di Vermeer riconosciuto all'unanimità, è
costituito da 35 opere, un numero assai esiguo, dovuto alla lentezza
dell’Artista nel dipingere piccole opere da cavalletto e una carriera artistica
assai breve, dovuta alla morte a soli 43 anni, dopo aver condotto una vita
modesta, lasciando la famiglia in gravi difficoltà finanziare. I debiti
lasciati da Vermeer furono risolti dai familiari mettendo all’ Asta gran parte
dei dipinti dell’Artista nel 1696 (in quella occasione furono venduti 21
dipinti). Nel 1676, un anno dopo la sua morte, venne redatto un inventario dei
beni di sua proprietà e le opere messe all’ incanto dai familiari vennero descritte
in un catalogo del 1752 da G. Hoet; attraverso questi documenti abbiamo le
attestazioni più importanti per l’attribuzione certa di 33 opere al pittore,
(di cui uno trafugato nel 1990 “Il concerto” Olio su tela 72.5 cm ×
64.7 cm. Isabella Isabella Stewart Gardner Museum in Boston,) a queste si
aggiungono i due dipinti conservati alla National Gallery di
Washington “Ragazza con il flauto” (Olio su tavola, 20 x 17,8 cm.
probabile 1665/1675) e “Ragazza con il cappello rosso” (Olio su
tavola, 22.8 x 18 cm. 1665/66) e tre opere giovanili, che però non godono
di pareri concordanti. In ventidue anni di attività gli vengono riconosciute
35-38 opere al massimo considerando le attribuzioni incerte e dibattute, il che
significa che mediamente ha realizzato meno di due dipinti all’ anno. Il suo
modus operandi è lento e metodico, esegue un quadro alla volta con una tecnica
e precisione quasi maniacale, concentrandosi anche nel più minimo particolare
dato da luci, toni di colore, sfumature delle ombre. In passato però non fu
sempre così, le opere attribuite all’ Artista sono state anche oltre settanta,
nello specifico fu il critico d’arte francese Etienne J. Theophilè
Thorè nel 1866 a pubblicare in tre articoli usciti
nella "Gazette des Beaux Arts" di Parigi, il suo interesse
per Vermeer ampliando sensibilmente quello che era il suo catalogo pittorico.
Questo numero certamente troppo alto, fu abbattuto la prima volta nel 1948
riducendo le opere a 43, taglio che proseguì negli anni successivi sino al 1975
quando con la pubblicazione “Johannes Vermeer van Delft
1632-1675”, Albert Blankert fece un taglio ancora più drastico,
escludendo quattro opere oggi condivisibilmente riconosciute. Per tutte queste
ragioni gli studiosi sono molto poco propensi ad ulteriori scoperte inerenti la
sua produzione artistica, considerando inoltre che non sono pervenuti disegni,
schizzi o incisioni dell’Artista, che la documentazione risulta essere scarsa,
e i dipinti dispersi non sono certo tanti. La “Santa Prassede” datata
1655, sarebbe stata realizzata quando il pittore aveva 22/23 anni: il dipinto
andrebbe così a collocarsi all’ interno di quel piccolissimo gruppo di opere
giovanili “Diana e le ninfe” (Olio su tela 98,5×105 cm. 1653-56,
L’Aja Mauritshuis ) ; "Cristo in casa di Marta e Maria” (Olio su
tela 160x142 cm. 1654-55, Edimburgo National Gallery of Scotland); “La
mezzana” (Olio su tela, 1656 Dresda, Gemaldegalerie), raffiguranti
soggetti religiosi e mitologici, rappresentanti quel genere di pitture che
meglio si prestavano per l’esercizio tecnico-pittorico dei principianti che
potevano così raggiungere gli alti livelli dei grandi Maestri, specie di quelli
della tradizione italiana; nello specifico come è già ampiamente noto, l’opera
è copia del dipinto di Felice Ficherelli (San Gimignano, 30 agosto
1605 – Firenze, 5 marzo 1660) pittore italiano attivo in Toscana,
conosciuto come “Il Riposo” (“Santa Prassede” Olio su tela, 1645
circa, Ferrara, collezione privata), pertanto una perfetta esercitazione
dei pigmenti, del colore e dei metodi di applicazione di un Maestro Italiano.
Nel Settembre 2012 fu allestita a Roma alle “Scuderie del
Quirinale” la mostra “Vermeer, il secolo d’oro dell’Arte
Olandese” in cui furono esposti 57 dipinti di cui 8 dell’Artista di Delft.
Tra questi fu esposta anche la "Santa Prassede", in un inedito
confronto con l’originale di Ficherelli, offrendo così ai visitatori una
bellissima occasione per poter effettuare un esame de visu dell’opera e
approfondirne la conoscenza e vagliarne gli aspetti tecnico-compositivi, stilistico
e qualitativi. Certo è che andrebbe sottolineato anche il fatto che di per sé
non è l’accostamento a Ficherelli che potrebbe eliminare ulteriori dubbi
o portare conferme circa l’attribuzione a Vermeer, e che anzi forse in quella
occasione erano più le domande rimaste in sospeso, che non le risposte,
poiché la vera comparazione utile per avere parametri significativi nel
ricondurre l’opera inoppugnabilmente all’ Artista olandese, andrebbe
fatta con le sole tre opere giovanili a carattere mitologico/religioso: una
giornata di studi e ricerca con i quattro dipinti uno a fianco all’ altro
sarebbe a mio avviso certamente, estremamente costruttiva. Il dipinto fu
associato per la prima volta a Vermeer nel 1969, in quell’ anno l’opera fu
prestata al Metropolitan Museum of Art di New York per una mostra
sulla pittura barocca fiorentina, come di Ficherelli: in quell’occasione fu
notata la firma in basso a sinistra “Meer 1655” e lo storico
dell’Arte Michael Kitson prese in considerazione l’ipotesi che il pittore
olandese avesse potuto fare una copia del modello italiano.
n questo caso quindi la firma è stata di vitale importanza,
poiché senza di essa probabilmente nessuno mai avrebbe considerato l’opera come
olandese e non italiana, come sino ad allora era stato naturale pensare. Il
quadro fu pubblicato per la prima volta nel 1986 e nel 1995 fu esposto come
opera giovanile dell’Artista. Arthur K. Wheelock, curatore alla National
Gallery of Art di Washington, sostiene che questo fu il primo dipinto
datato dell’Artista. Ma la svolta attributiva, come si può leggere dal Catalogo
di Christie’s, fu data nel 2014 dalla campagna di indagini condotta dal Rijksmuseum;
secondo l’esito di tali analisi il primo dato da prendere in considerazione è
stato che firma e data risultano coeve al dipinto, fugando i numerosi dubbi
circa l’apposizione della firma successiva all’ esecuzione dello stesso, tale
tesi è stata supportata altresì da ulteriori test eseguiti a Londra da Libby
Sheldon, ricercatrice ed esperta di materiali pittorici, nota per aver
analizzato 3 dipinti di LS Lowry nel programma della BBC1 “Fake o Fortune”.
Le sue osservazioni in merito all’ analisi della firma vengono riportate
pedissequamente da Christie’s, citando quanto segue "Sebbene non sia
stata raggiunta una conclusione definitiva sulla data esatta della firma, la
stabilità della vernice, una volta testata, suggerisce che anch’essa è stata
dipinta da molto tempo. La vernice nera che forma l'iscrizione "Meer
1655" non è stata ripassata o rafforzata. Il nero utilizzato ha un
aspetto compatibile e similare a quello della vernice nera dell’ombra vicina, e
la sua condizione, il modo in cui è invecchiata con il tempo, suggerisce che è
vecchia esattamente come il dipinto.”
All’ angolo destro dell’opera, dipinto sul color ocra chiaro,
pare esserci un’altra iscrizione, sfuggita per molto tempo agli occhi degli
esperti, “Meer N ... R ... o ... o” ma così frammentaria che nemmeno
le analisi sono riuscite a fornire un’interpretazione significativa. La teoria
ancora oggi sostenuta, riportata per la prima volta nel 1986 dallo Storico
dell’Arte Egbert Havercamp-Begeman, è quella secondo cui la dicitura si
potrebbe ipotizzare completa come "Meer naar Riposo", in
quanto “Riposo” il soprannome dell’italiano Ficherelli. Inutile
sottolineare quanto due firme nella stessa tela siano rarissime per un dipinto
del XVII Secolo. Una domanda che ci si dovrebbe eventualmente porre se
non si volesse comunque credere all’ esito riportato dalle analisi, è in che
modo e in quali circostanze potrebbe venire aggiunta una firma di Vermeer ad
un’opera così improbabile per l’Artista? L’iconografia è decisamente lontana
dal Vermeer riconosciuto, e la teoria di un’apposizione successiva
sarebbe stata certamente più sostenibile su un dipinto similare per stile,
genere e composizione, ma non è certo questo il caso.
Il secondo risultato ottenuto dalla campagna di indagini
inerente le analisi dei pigmenti ha dimostrato che i materiali utilizzati
furono non solo della stessa epoca, ma di ambito olandese, in particolar modo
il Bianco di Piombo (per citare le stesse parole di Christie’s) è
incontrovertibilmente non italiano. Tale pigmento è stato utilizzato in tutto
il dipinto, ed era tra quelli più utilizzati per la pittura a olio del XVII
Secolo, prodotto in larga scala, abbastanza economico e facilmente reperibile.
Dall’ analisi del rapporto isotopico effettuato presso la Free University di
Amsterdam si è stati in grado di risalire alle origini del piombo e distinguere
tra i minerali di piombo cisalpino e transalpino, e riconoscere la materia
prima principale del piombo contenuto nel pigmento. Questo esame è estremamente
preciso, e permette di ricondurre la forma grezza del minerale al pigmento,
determinando così se il bianco di piombo proviene da una fonte settentrionale o
meridionale, questo ne ha permesso di stabilirne con assoluta certezza,
collocando il bianco principale nel gruppo di campioni olandesi / fiamminghi,
riconoscendone la paternità nord-europea. Va detto inoltre che all’ epoca
il numero di pigmenti disponibili per qualsiasi pittore era veramente esiguo e
che non esisteva la vasta selezione arrivata con l’era industriale e lo
sviluppo dell’industria chimica, per cui la tavolozza cromatica di Vermeer era
costituita da meno di 20 pigmenti, pertanto è sicuramente estremamente facile
ricondurre un determinato materiale alla sua palette, contrariamente è noto ad
esempio che la tavolozza più variegata fu probabilmente quella di Rembrandt, di
cui sono conosciuti circa 100 pigmenti. Un’altra assonanza con la tecnica
olandese fu l’utilizzo di una base di gesso con elementi di bianco di piombo.
Una volta stabilita la certa provenienza olandese dei pigmenti, è stato
effettuato lo stesso test sul dipinto “Diana e le ninfe” (Olio su
tela 98,5×105 cm. 1653-56, L’Aja Mauritshuis), affinché si costituisse un
database di informazioni per poter comparare opere realizzate in uno stesso
periodo storico e di attribuzione unanimemente accettata dell’Artista. Il
risultato ottenuto è stato così straordinario che si è ipotizzato che lo stesso
lotto pittorico di pigmenti sia stato utilizzato per entrambe le opere: l’esame
tra i due campioni ha fornito una corrispondenza quasi identica di valori di
abbondanza di isotopi. (La relazione tecnica degli esami si può avere su
richiesta da Christie’s). Tutte queste analisi hanno costituito la prova
scientifica incontrovertibile che il dipinto non sia stato realizzato in
Italia. Un altro elemento che ha convinto alcuni storici è dato dalla tecnica
con cui è stata riprodotta la Santa Prassede. Quando si riproduce un dipinto
praticamente fedelmente come in questo caso, da un modello preesistente,
si presuppone che questo venga costruito interamente in un unico blocco sin
dall’ inizio, dipingendo prima gli elementi in primo piano per poi arrivare
alla parte posteriore, in questo caso invece curiosamente la tecnica adottata
dimostra che la composizione è stata costruita strato dopo strato come fosse
una composizione inedita, dipingendo prima lo sfondo, aggiungendo sopra la
pittura man mano i nuovi elementi, con delle sovrapposizioni dei piani, come
se fossero, per citare il Professor emerito Jorjen Wadum responsabile
del reparto di conservazione dello Statens Museum for Kunst, la Galleria
Nazionale della Danimarca, dei similpentimenti. Oltre questo va
specificato anche che in un esercizio di riproduzione accademica, ai fini di
studio del metodo e della tecnica, fosse più improbabile che un Artista
lasciasse il proprio segno esecutivo quale impronta inconfondibile della sua
mano, al contrario, specialmente in giovane età quando ancora la propria
personalità artistica poteva non avere contorni ben definiti, si tendeva ad
imitare più possibile il Maestro copiato, poiché un’esecuzione impeccabile
sarebbe stata il prodotto del raggiungimento di una tecnica sopraffina. Questo
aspetto va tenuto in considerazione poiché a mio avviso è un elemento chiave
nell’ affrontare una valutazione stilistica, in quanto la natura imitativa del
dipinto rende dissimile l’opera dalle altre composizioni giovanili di Vermeer,
pertanto più complesso un eventuale confronto. D’altro canto come fece notare
nel 1985 Arthur K. Wheelock, curatore alla National Gallery of Art di
Washington, il viso della "Santa Prassede" ha una
somiglianza notevole con il viso del dipinto “La cameriera che dorme” (Olio
su tela 87.6 x 76.5 cm. 1656–57 c. Metropolitan Museum of Art, New York) realizzato
pochi anni dopo. Le due figure sono speculari l’una all’ altra, così per una
migliore comprensione comparativa, attraverso l’utilizzo dei moderni programmi
di grafica ho girato il volto della cameriera che dorme, nella stessa direzione
della Santa Prassede, e come si può notare, le similitudini sono
impressionanti.
Nonostante la positiva campagna di indagini e le argomentazioni
proposte a sostegno dell’ascrizione a Vermeer, molti studiosi continuano a
sostenere la tesi secondo cui il quadro sia italiano. L’argomentazione più
diffusa dai detrattori di questa attribuzione è data dalla domanda (senza
risposta) “Quando Vermeer vide l’originale di Ficherelli e potè dipingerla
così fedelmente?". Dalle fonti documentaristiche non risulta che il
pittore abbia mai viaggiato in Italia, d’altra parte non è nemmeno documentato
che l’opera di Ficherelli potesse trovarsi in Olanda (considerando poi che il
pittore a malapena si spostava da Firenze), e non risultano sue copie note nei
Paesi Bassi. L’unica congettura plausibile quindi rimarrebbe, nell’ eventualità
di aver visto una qualche riproduzione, che abbia realizzato la propria tela da
una copia non pervenuta dalle fonti e che, se quindi davvero non si è mai
spostato, l’unica esperienza con l’arte italiana è collegabile alle sole
riproduzioni che potevano essere disponibili in quell’ epoca a Delft. Eppure,
contrariamente a questa teoria sostenuta da molti studiosi, io ritengo che la
qualità riproduttiva dell’opera di Vermeer sia così elevata, da non poter essere
il frutto di una riproduzione di una copia, ma l’esecuzione pittorica eseguita
sulla base dell’originale del Maestro, anche perché altrimenti altre questioni
dovrebbero essere messe in discussione: se Vermeer non avesse riprodotto il
dipinto dall’ originale, che senso avrebbe avuto imitare un Maestro come
Ficherelli e soprattutto con un soggetto così particolare e poco diffuso?Se
avesse semplicemente voluto copiare un qualsiasi Maestro Italiano ai fini di
studiarne la tecnica e la composizione, avrebbe potuto attingere a moltissime
copie con una diffusione maggiore di soggetti a carattere mitologico/religioso
realizzate da artisti, certamente già da allora, più noti di Ficherelli. Per
tali ragioni quindi sono convinta che una scelta simile abbia ragioni ben
precise e ben specifiche, e che, anche se non sappiamo ne dove, ne quando,
Vermeer abbia visto l’originale di Ficherelli. A tal proposito infatti il
Prof. Wheeloock sostiene e suggerisce che nonostante non ci siano
attestazioni scritte che lo dimostrino, un qualche spostamento di Vermeer in
Italia non è del tutto escluso. Tale congettura nasce dallo studio delle altre
opere giovanili dell’Artista le cui composizioni hanno trovato riscontro con
dipinti di Artisti Fiamminghi attivi al sud delle Fiandre e a Utrecht, che
suggeriscono la familiarità di Vermeer con correnti esterne a Delft, sottese a
ipotizzarne degli spostamenti. In articolo datato 2002, ma a
cui si fa riferimento alla mostra di Roma del 2012 quindi è stato certamente
aggiornato dopo le più approfondite indagini svolte sulla Prassede, Jone
Bone fa un’accurata analisi, in cui diversi studiosi escludono totalmente
l’eventualità che l’opera sia di Vermeer concludendo con questa frase “La
spiegazione più semplice che copre tutti i fatti del caso è che il dipinto è
una copia eseguita sia dal pittore originale, Ficherelli, a Firenze, o da un
altro artista nella cerchia di Ficherelli. Le successive firme sul dipinto si
riferiscono probabilmente a uno o più dei tanti artisti dell'epoca con il nome di
Meer o van der Meer, non Johannes Vermeer di Delft.”
Chissà se poi alla luce degli esiti scientifici del 2014
qualcuno si sia ricreduto?
Nel 2008, anche in questo caso quindi antecedentemente alla
nuova campagna di analisi, uno studio della Storica dell’Arte Francesca
Baldassari, massima esperta di Seicento fiorentino, nella monografia dedicata
al pittore toscano Simone Pignoni, autore di una “Santa Prassede” (Olio
su tela, 89 x 74 cm. 1626/1698, Museo del Louvre, Parigi), fece
riferimento alla tela proveniente dalla collezione Piasecka-Johnson con una
convinta attribuzione ascrivibile alla mano di Felice Ficherelli.
Ma al quadro sino ad ora narrato, le cui asserzioni tutto
sommato non sono nuove, si aggiunge un altro tassello interessante. Il 17
Ottobre 2017 la Casa d’Asta Dorotheum, ha messo per la prima volta all’ incanto
nella sua storia, un altro modello, conservato per secoli in collezione
privata, pressoché similare nella composizione, ma molto più intenso e vibrante
nei cromatismi, e a mio avviso di qualità superiore, dell’opera di Felice
Ficherelli, rappresentante la "Santa Prassede" (Olio su
tela, 115 x 90 cm.). Il dipinto presentato con cornice fiorentina coeva in
legno intagliato e dorato, è stato stimato tra 150.000/200.000 Euro, e
aggiudicato per 350.508 Euro. Gli studiosi sostengono che questa fu
la prima versione dipinta da Ficherelli; le analisi tecniche del dipinto,
nonché la radiografia della tela eseguite dal Prof. Gianluca Poldi,
specializzato in analisi scientifiche dedicate allo studio e alla conservazione
di opere d’arte, hanno messo in evidenza una serie di pentimenti da parte
dell’Artista: la struttura architettonica sulla destra risultava essere più
ricca, ed era presente una colonna toscana sulla sinistra; inoltre il martire
decapitato a terra pare fosse concepito in maniera differente. Da queste
scoperte pertanto, considerando che gli altri due esemplari seguono la linea
compositiva visibile del dipinto, si è portati a pensare che questo fosse il
primo modello realizzato. Sovente le immagini divulgate online delle opere
d’arte non corrispondono alla tonalità cromatica originale del dipinto, e
questo porta ad uno sfasamento dei valori tonali che può compromettere
notevolmente la lettura di un’opera se non si dispone dell’originale. Come si
può verificare attraverso il video proposto da Christie’s i colori
più verosimilmente affini alla visione dal vivo della Santa Prassede venduta
nel 2014, tendono più al rossastro, e non al rosa come nelle immagini più
largamente diffuse.
Alla luce dello svelamento di questa nuova versione, di cui
comunque se ne conosceva l’esistenza già da tempo, ci si può porre un altro
quesito: quale delle due Vermeer avrà realmente visto e copiato?
Nel 2014 in una bella intervista alla Famiglia Fergnani, qui proprietari
dal 1970 del modello più noto della Prassede di Ficherelli, dichiararono di non
essere a conoscenza di altre copie del quadro, spesso ipotizzate, ma delle
quali non si riscontrava traccia tangibile. Eccolo rinvenuto grazie alla
vendita di Dorotheum.
Precedente a queste tre versioni pittoriche della "Santa
Prassede", è senza dubbio un disegno sempre di Felice
Ficherelli conservato al Museo degli Uffizi di Firenze, Gabinetto
Disegni e Stampe (N. Inv. N. 3705 S) che differisce nello sfondo, in
cui al posto della costruzione architettonica è visibile un’approssimazione
vegetale di piante e terreno erboso con un piccolo tempio romano
all'orizzonte.
Come accennato precedentemente, nella scelta imitativa di
Vermeer, colpisce un soggetto così specifico e poco diffuso rispetto al mito di
altri Santi. Molti studiosi sono concordi nell’ argomentare tale specifica
scelta con la conversione del Pittore di Delft al cattolicesimo poco prima di
sposarsi il 20 Aprile 1653. Wheelock sostenne più
specificatamente che tale preferenza potrebbe essere interpretata come una
inequivocabile dichiarazione da parte dell’Artista nei confronti della fede
cattolica. Prassede era una vergine romana vissuta nel II secolo,
ritenuta secondo la leggenda, assieme a Pudenziana, figlia del Senatore
Pudens, che ospitò San Pietro nella sua casa. Pur non subendo il martirio,
prestò assistenza ai cristiani condannati, raccogliendone il sangue con spugne,
lavandone e seppellendone i corpi. (J. Hall “Dizionario dei soggetti e dei
simboli nell’arte” 1974, Longanesi & C. Milano, pag. 337) .
L’ideazione compositiva di Ficherelli dal carattere così devozionale, è inedita
nel suo genere, nessun altro prima di lui aveva rappresentato la Santa in quel
modo. La più nota Prassede che mi viene in mente è quella
di Antonio Carracci (Olio su tela, 98 x 127 cm. 1606/1609 Pinacoteca
Nazionale di Bologna, Acquisita dal Ministero dei Beni e delle Attività
Culturali nel 2016), la cui rappresentazione in piedi ne conferisce minor
coinvolgimento e pathos nel prodigarsi nel gesto di raccogliere il sangue dei
cristiani; alcune versioni realizzate da Pulzone Scipione in cui
Prassede viene raffigurata seduta; un modello di ambito lombardo di Bernardino
Luini con la giovane rappresentata a mezzo busto (retaggio dei ritratti
leonardeschi) e quella forse più certamente drammatica ed evocativa di Simone
Pignoni (Olio su tela, 89 x 74 cm. 1626/1698, Museo del Louvre, Parigi)
. Nell’Archivio della Fondazione Zeri in cui si possono vedere i
modelli citati, stranamente non è presente l’esemplare di Ficherelli. A
questi si aggiunge un bel modello di Prassede in stato contemplativo dipinto
da Giovanni Lanfranco venduto da Sotheby’s nel
2015.
Esistono opere nella Storia dell’Arte largamente imitate, è
molto facile trovare per alcuni soggetti svariate copie, spesso realizzate in
epoche più tarde, tra metà Settecento e metà Ottocento. Curiosamente, eccetto
le due versioni di Ficherelli e la versione attribuita a Vermeer, nonché lo
stesso disegno preliminare di Ficherelli, non risultano copie in merito.
Personalmente, oltre le informazioni già note, ho provato ad effettuare diverse
ricerche incrociate nei più importanti database mondiali per l’archiviazione di
immagini di opere d’arte, ma tale ricerca non ha prodotto nessun risultato, se
non la conferma di quanto noto dell’assenza di ulteriori copie, anche se
fossero di scuola minore e bassa qualità, dell’iconografia prassediana del Ficherelli.
Naturalmente tale ricerca non ha carattere specifico di studio, per cui non è
stata approfondita nella maniera più accurata possibile, pertanto ulteriori
esplorazioni certamente farebbero ben sperare in altri esiti, e se qualcuno
avesse approfondito studi e ricerca sull'iconografia della "Santa
Prassede" e lo stile compositivo inventato dal Ficherelli, la
condivisione e il dibattito, sono sempre molto graditi.
A questo punto però rimane un’altra domanda senza risposta:
come è possibile che solo Vermeer si sia cimentato nella copia di quest’opera?
Possibile che nessun altro abbia considerato il dipinto, così
unico, un bel modello da riprodurre?
All’ interno dell’accurato sito Essential Vermeer, il
portale interamente dedicato alla ricerca sull’ Artista Olandese, a cura dello
Storico dell’Arte e Pittore Jonathan Janson, di cui ne è autore
e webmaster, che probabilmente, considerando non solo l’ampia ricerca, ma
la natura della sua produzione artistica, ha fatto di Vermeer una vera e
propria ossessione, inserisce un simpatico tool per la votazione aprendo
il dibattito con gli appassionati tra gli addetti ai lavori e non, che si
saranno imbattuti nel suo portale, ponendo questa domanda:
“Credi che questo dipinto sia un’opera autentica di Johannes
Vermeer?”Santa Praxedes (Saint Praxedis) - Felice Ficherelli
Santa Praxedes (Saint Praxedis) - Felice Ficherelli
Coleção privada
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The present composition by the seventeenth-century Tuscan
artist Felice Ficherelli was first described by Filippo Baldinucci in 1681 (see
F. Baldinucci, Notizie dei professori del desegno da Cimabue a qua, Florence
1681, ed. 1717, p. 221). It is offered for sale at auction for the first time
in its documented history. The work has remained in one family’s collection for
centuries and it has not been previously accessible to scholars.
This painting of Saint Praxedis would appear to be the prime version of the composition, which is known primarily in two other variants. One is another autograph version by Felice Ficherelli, which was formerly in the collection of Carlo del Bravo in Florence, and is now in a private collection in Ferrara (oil on canvas, 108 x 80 cm), and the other is the celebrated copy of the composition which has been given to Johannes Vermeer (Delft 1632-1675), and was sold recently at Christie’s, London. (oil on canvas, 101.6 x 81.6 cm., 8 July 2014, lot 39, for € 7.900. 000). Both these two versions were exhibited recently in Rome. Vermeer’s Saint Praxedis was hung alongside the del Bravo Ferrara version, which has been widely considered to be the prototype and the model for Vermeer’s painting. However, it is possible that another version of the composition might have served as the actual model.
Arthur Wheelock believes that the version of this composition copied by Vermeer is his earliest dated work and an exploratory painting by a young artist who had recently converted to the Catholic faith and who had a proven interest in contemporary Italian art (see A. K. Wheelock, St. Praxedis: New Light on the Early Career of Vermeer in: Artibus et Historiae, vol. 7, no. 14, 1986, pp. 71-89). The present composition must have exerted a strong impact on Vermeer, not just on artistic grounds, but also on account of its devotional character.
Vermeer would have had access to Italian paintings, even if he did not visit Italy itself, but it must be asked why he decided to copy a composition by Ficherelli. The possibility always exists that he was commissioned to paint it. Even if he were not, the subject may have had a special appeal for him as St. Praxedis was one of a number of Roman saints who enjoyed a popularity among Jesuits of the seventeenth century as they sought to emphasise the early traditions of the Catholic Church. Vermeer’s interest in Jesuit ideas at the time must have been acute. Although he had been baptised in the Reformed Church, he married into a Catholic family in 1653 and seems to have converted to Catholicism shortly before that date. He named his youngest son Ignatius and had ties with the Jesuits throughout his life. The subject of Saint Praxedis also shares a thematic concern for the dignity of servitude found in Vermeer’s other early works such as Christ in the House of Martha and Mary in the National Gallery of Scotland, Edinburgh.
Praxides was a Roman Saint in the 2nd century, revered for having cared for Christians who died under religious persecution. According to Jacobus de Voragine’s The Golden Legend, Praxides was the sister of Saint Pudentiana and their brothers were Saint Donatus and Saint Timothy. During one of the periods of persecution, they buried the bodies of Christians and distributed goods to the poor. De Voragine’s brief account states that they died in 165, in the reign of Emperors Marcus and Antoninus II. She is shown here in an image of devout contemplation after having tended to a decapitated martyr who lies on the ground behind her. The composition best exemplifies Ficherelli’s unusual combination of great artistic beauty and drama.
Ficherelli’s Saint Praxedis in the context of his oeuvre:
The subject was rarely treated by Italian artists, and therefore the depiction of it by Ficherelli is unusual. The artist is known to have painted this subject from as early as 1681, when Filippo Baldinucci described the collection of Cavaliere Jacopo Serzelli. He mentioned a group of four paintings by Ficherelli there an ‘Expulsion’ and three female subjects: a ‘Saint Agatha’, a ‘Herodias’, and ‘una Santa Prassede che spreme il sangue de’Martiri’ (op. cit. Baldinucci, 1681, p. 221). The ‘Santa Prassede’ refers to the present painting.
Baldinucci informs us that Ficherelli left his native San Gimignano in the 1620s for Florence under the protection of the art collector Alberto de’ Bardi from Vernio. De’ Bardi entrusted him to Jacopo da Empoli who ran one of the most successful workshops in the Grand Duchy’s capital. This apprenticeship was decisive and left a lasting influence on Ficherelli. The artist was named ‘il Riposo’ [the restful] for his easy-going and peaceful nature.
The present painting is a combination of different artistic developments in Florence between 1640 and 1650. Certain elements appear to be inspired by Ficherelli’s master Jacopo da Empoli, but the dramatic character of the scene owes much to the iconography introduced to Florentine seventeenth-century art by Francesco Furini (1603–1646). Indeed, the more sensual and softer language of Furini appears to have had a great impact on Ficherelli. Furini, as well as Ficherelli, used delicate brushwork, influenced by Venetian art, to convey their subjects in a subtle manner. The colouring and background recall sixteenth-century Florentine art, Jacopo da Empoli and also Andrea del Sarto. But the present composition is also exemplary for a simple, less ornate, classical approach that characterises Ficherelli’s style in the late 1640s, a development that he shared primarily with Lorenzo Lippi. Bandera has observed an almost Neo-Raphaelesque classicism in the present composition and a beautiful, academic harmony and balance of colouring and design.
Technical analysis and infrared reflectography carried out by Gianluca Poldi have shown several pentimenti which imply that the present composition was modified during the process of painting. Apparently, Ficherelli originally had intended a much more ornate architectural structure to the right, and sketched a column with a Tuscan base to the left, which in the final version is now a simple square block. This under drawing is generally free and made with a brush in black. The decapitated martyr also appears to have been originally conceived slightly differently. The fact that the Ferrara version, as well as Vermeer’s copy, follow the final stage of the present painting, makes it highly likely that the present Saint Praxedis is the prime version of the composition.
A drawing conserved at the Uffizi also demonstrates that Ficherelli experimented with different compositional schemes. The central figure, with the elegant curves of her drapery and the contemplative intensity with which she focusses on the vase containing the blood of the martyrs, appears to have been formulated at this initial stage, but the architectural background and setting for this central scene were subject to several changes. In the drawing, Ficherelli placed the figure to the right of the composition, with a small Roman temple in the left background. When he began to paint and sketch on the present canvas, a column was originally incorporated and then painted over as if to recall the idea of the temple on the left, as might be the case with the much more ornate structure to the right.
Given these observations it would appear plausible to suggest a hypothetical chronology for the composition’s several stages of development: The first stage is represented by the drawing, in which the figure of the Saint was already designed, then the present version, the Bardi-Serzelli Saint Praxedis, during the process of which several changes were still carried out and this represents the second and a third stages of the finished composition. Which of the two other versions, the copy given to Vermeer or the Ferrara variant was executed next, based on the present composition, is difficult to determine. However it would appear to be plausible to argue that Vermeer used the present painting as a model for his celebrated copy.
The painting is offered in its original 17th century Florentine carved and gilded wooden frame. We are grateful to Georg Smolka for his analysis.
This painting of Saint Praxedis would appear to be the prime version of the composition, which is known primarily in two other variants. One is another autograph version by Felice Ficherelli, which was formerly in the collection of Carlo del Bravo in Florence, and is now in a private collection in Ferrara (oil on canvas, 108 x 80 cm), and the other is the celebrated copy of the composition which has been given to Johannes Vermeer (Delft 1632-1675), and was sold recently at Christie’s, London. (oil on canvas, 101.6 x 81.6 cm., 8 July 2014, lot 39, for € 7.900. 000). Both these two versions were exhibited recently in Rome. Vermeer’s Saint Praxedis was hung alongside the del Bravo Ferrara version, which has been widely considered to be the prototype and the model for Vermeer’s painting. However, it is possible that another version of the composition might have served as the actual model.
Arthur Wheelock believes that the version of this composition copied by Vermeer is his earliest dated work and an exploratory painting by a young artist who had recently converted to the Catholic faith and who had a proven interest in contemporary Italian art (see A. K. Wheelock, St. Praxedis: New Light on the Early Career of Vermeer in: Artibus et Historiae, vol. 7, no. 14, 1986, pp. 71-89). The present composition must have exerted a strong impact on Vermeer, not just on artistic grounds, but also on account of its devotional character.
Vermeer would have had access to Italian paintings, even if he did not visit Italy itself, but it must be asked why he decided to copy a composition by Ficherelli. The possibility always exists that he was commissioned to paint it. Even if he were not, the subject may have had a special appeal for him as St. Praxedis was one of a number of Roman saints who enjoyed a popularity among Jesuits of the seventeenth century as they sought to emphasise the early traditions of the Catholic Church. Vermeer’s interest in Jesuit ideas at the time must have been acute. Although he had been baptised in the Reformed Church, he married into a Catholic family in 1653 and seems to have converted to Catholicism shortly before that date. He named his youngest son Ignatius and had ties with the Jesuits throughout his life. The subject of Saint Praxedis also shares a thematic concern for the dignity of servitude found in Vermeer’s other early works such as Christ in the House of Martha and Mary in the National Gallery of Scotland, Edinburgh.
Praxides was a Roman Saint in the 2nd century, revered for having cared for Christians who died under religious persecution. According to Jacobus de Voragine’s The Golden Legend, Praxides was the sister of Saint Pudentiana and their brothers were Saint Donatus and Saint Timothy. During one of the periods of persecution, they buried the bodies of Christians and distributed goods to the poor. De Voragine’s brief account states that they died in 165, in the reign of Emperors Marcus and Antoninus II. She is shown here in an image of devout contemplation after having tended to a decapitated martyr who lies on the ground behind her. The composition best exemplifies Ficherelli’s unusual combination of great artistic beauty and drama.
Ficherelli’s Saint Praxedis in the context of his oeuvre:
The subject was rarely treated by Italian artists, and therefore the depiction of it by Ficherelli is unusual. The artist is known to have painted this subject from as early as 1681, when Filippo Baldinucci described the collection of Cavaliere Jacopo Serzelli. He mentioned a group of four paintings by Ficherelli there an ‘Expulsion’ and three female subjects: a ‘Saint Agatha’, a ‘Herodias’, and ‘una Santa Prassede che spreme il sangue de’Martiri’ (op. cit. Baldinucci, 1681, p. 221). The ‘Santa Prassede’ refers to the present painting.
Baldinucci informs us that Ficherelli left his native San Gimignano in the 1620s for Florence under the protection of the art collector Alberto de’ Bardi from Vernio. De’ Bardi entrusted him to Jacopo da Empoli who ran one of the most successful workshops in the Grand Duchy’s capital. This apprenticeship was decisive and left a lasting influence on Ficherelli. The artist was named ‘il Riposo’ [the restful] for his easy-going and peaceful nature.
The present painting is a combination of different artistic developments in Florence between 1640 and 1650. Certain elements appear to be inspired by Ficherelli’s master Jacopo da Empoli, but the dramatic character of the scene owes much to the iconography introduced to Florentine seventeenth-century art by Francesco Furini (1603–1646). Indeed, the more sensual and softer language of Furini appears to have had a great impact on Ficherelli. Furini, as well as Ficherelli, used delicate brushwork, influenced by Venetian art, to convey their subjects in a subtle manner. The colouring and background recall sixteenth-century Florentine art, Jacopo da Empoli and also Andrea del Sarto. But the present composition is also exemplary for a simple, less ornate, classical approach that characterises Ficherelli’s style in the late 1640s, a development that he shared primarily with Lorenzo Lippi. Bandera has observed an almost Neo-Raphaelesque classicism in the present composition and a beautiful, academic harmony and balance of colouring and design.
Technical analysis and infrared reflectography carried out by Gianluca Poldi have shown several pentimenti which imply that the present composition was modified during the process of painting. Apparently, Ficherelli originally had intended a much more ornate architectural structure to the right, and sketched a column with a Tuscan base to the left, which in the final version is now a simple square block. This under drawing is generally free and made with a brush in black. The decapitated martyr also appears to have been originally conceived slightly differently. The fact that the Ferrara version, as well as Vermeer’s copy, follow the final stage of the present painting, makes it highly likely that the present Saint Praxedis is the prime version of the composition.
A drawing conserved at the Uffizi also demonstrates that Ficherelli experimented with different compositional schemes. The central figure, with the elegant curves of her drapery and the contemplative intensity with which she focusses on the vase containing the blood of the martyrs, appears to have been formulated at this initial stage, but the architectural background and setting for this central scene were subject to several changes. In the drawing, Ficherelli placed the figure to the right of the composition, with a small Roman temple in the left background. When he began to paint and sketch on the present canvas, a column was originally incorporated and then painted over as if to recall the idea of the temple on the left, as might be the case with the much more ornate structure to the right.
Given these observations it would appear plausible to suggest a hypothetical chronology for the composition’s several stages of development: The first stage is represented by the drawing, in which the figure of the Saint was already designed, then the present version, the Bardi-Serzelli Saint Praxedis, during the process of which several changes were still carried out and this represents the second and a third stages of the finished composition. Which of the two other versions, the copy given to Vermeer or the Ferrara variant was executed next, based on the present composition, is difficult to determine. However it would appear to be plausible to argue that Vermeer used the present painting as a model for his celebrated copy.
The painting is offered in its original 17th century Florentine carved and gilded wooden frame. We are grateful to Georg Smolka for his analysis.
Maserati MC12 2005, Itália
Maserati MC12 2005, Itália
Fotografia
Finally seeing financial stability after decades of lacklustre
sales, Maserati was performing well by the mid-2000s thanks to the purchase of
the marque by Fiat S.p.A. With the new spyder, coupe, and Quattroporte models
all proving to be not only quality automobiles but sales successes, the time
was right for Maserati to produce a new ‘halo’ car.
Naturally, they turned to their corporate siblings and
neighbours at Ferrari and borrowed the platform of the groundbreaking Enzo,
leaving Maserati’s engineers with the enviable task of improving upon one of
the greatest supercars ever built. New coachwork was penned by Frank
Stephenson, giving the car its own distinct personality and charisma. Defined
by its colossal rear spoiler and removable hardtop, the MC12 created more
downforce than the Enzo and offered a wholly different driving experience on
the open road. Of course, the differences were more than just skin-deep. The
MC12 boasts slightly different engine mapping and traditional dampers instead
of the electric dampers of the Enzo, as well as gear-driven cams rather than
the chain-driven cams on the Enzo.
Unlike the Enzo, the MC12 would not be confined to use on the
road, and Maserati decided to take the car racing. The race-ready version of
the MC12, the MC12 Corsa, was campaigned in the FIA’s GT and GT1 World
Championship series, where it proved to be a formidable contender. Vitaphone
Racing secured five consecutive team championships and a sixth of the first
season of GT1 in 2010. Furthermore, Maserati won the Manufacturer’s Cup in 2005
and 2007 and six Drivers’ Championships—four in the FIA GT Championship from 2006
to 2009, one for the 2006 Italian GT Championship, and another in the newly
formed FIA GT1 class in 2010.
This particular MC12 was originally delivered to its first and
only owner in Hong Kong, where it has remained ever since. During its life, it
has been very well kept and sparingly driven, presented today having driven
less than 1,950 kilometres from new, making the car amongst the lowest-mileage
examples in existence.
Undoubtedly Maserati’s most desirable car built thus far into
the 21st century, it is truly a fascinating automobile. Maserati not only took
the Enzo’s platform and improved upon it, but proved that the car could be
competitive in motorsport on an international platform. With only fifty
street-legal MC12s ever built, it is much rarer than the Enzo (as 400 Enzos
were built), and thus it is an astute acquisition for any collection. Nearly
fifteen years after production concluded, single-owner examples are becoming
increasingly difficult to find; thus, this example should not be overlooked.
Obras de Fundação do Edifício Martinelli, Aproximadamente, 1925, São Paulo, Brasil
Obras de Fundação do Edifício Martinelli, Aproximadamente, 1925, São Paulo, Brasil
São Paulo - SP
Fotografia
Antiga Catedral da Sé, São Paulo, Brasil - Marc Ferrez
Antiga Catedral da Sé, São Paulo, Brasil - Marc Ferrez
São Paulo - SP
Fotografia - Cartão Postal
A história da catedral de São Paulo começa em 1589, quando se
decidiu que uma igreja principal (Matriz) seria construída na pequena vila
de São Paulo de Piratininga. Esta igreja,
situada onde está hoje o Monumento a Anchieta, escultura de Heitor Usai na
Praça da Sé, foi terminada em torno de 1616. São Paulo
transformou-se em sede de diocese em 1745, e a partir dessa
data, a antiga igreja foi demolida e substituída por uma nova, construída em
estilo barroco,
terminada em torno de 1764. Esta modesta igreja seria a catedral de São Paulo
até 1911,
quando foi demolida.
Obelisco, Praça Internacional / Parque Internacional, Santana do Livramento / Rio Grande do Sul / Brasil e Rivera / Uruguai
Obelisco, Praça Internacional / Parque Internacional, Santana do Livramento / Rio Grande do Sul / Brasil e Rivera / Uruguai
Santana do Livramento, Rio Grande do Sul, Brasil e Rivera, Uruguai
Foto Sisto
Fotografia - Cartão Postal
A Fronteira da Paz é um trecho da fronteira brasileiro-uruguaia, que abrange as cidades de Rivera (Uruguai) e Santana do Livramento (Brasil). Este nome é resultado da cultura de integração surgida da convivência internacional pacífica de ambos os povos. A fronteira entre as duas cidades é terrestre, estando elas unidas (e não separadas) por uma linha divisória imaginária através de extensas ruas, avenidas e estruturas limítrofes denominadas "marcos".
Um símbolo dessa convivência fraternal é Praça Internacional (chamada alternativamente Parque Internacional), única praça binacional do mundo, compartilhada soberanamente em partes iguais, inaugurada em 26 de fevereiro de 1943, no período dos presidentes do Brasil e Uruguai, Getúlio Vargas e Alfredo Baldomir, respectivamente, enquanto o mundo atravessava as vicissitudes da Segunda Guerra Mundial (1939-1945).
A praça tem uma área de aproximadamente trinta e três mil metros quadrados, formando um conjunto simétrico de um lado e outro da fronteira internacional. Em ambos os lados do mesmo o terreno tem um declive leve uma vez que a praça foi construída em três planos adaptados à topografia. Esta diferença é compensada por escadas e rampas transversais cobertas com grama.
O plano superior situa-se sobre o largo Hugolino Andrade, que também liga as cidades de Rivera e Santana do Livramento, configurado como um espaço jardim. De frente para o citado largo, foi construído um monumento símbolo da maçonaria e da comunhão uruguaio-brasileira: o obelisco. É um prisma triangular de 15 metros de altura, em cuja base estão representados os escudos nacionais do Uruguai e do Brasil, colocados em frente de seus respectivos países. Ambos os escudos foram esculpidos no arsenal do exército no Rio de Janeiro, e doados pelo Comitê Brasileiro de Limites.
Duas amplas escadarias centrais com motivos ornamentais comunicam com o segundo nível, em cujo centro há uma fonte luminosa. Para o sul um lance de escadas conduz ao monumento dedicado à Virgem Maria. Os passeios interiores de ambos os níveis são pavimentados com desenhos artísticos, emoldurados por uma simbólica cadeia de mármore em um fundo de pedra negra.
O nível mais baixo é um amplo espaço apropriado para encontros massivos.
A Praça Internacional já recebeu três visitas presidenciais conjuntas:
Em 10 de fevereiro de 1957 o presidente brasileiro Juscelino Kubitschek e Arturo Lezama, presidente do Conselho Nacional de Governo do Uruguai nesse ano, protagonizaram o primeiro encontro de mandatários na Praça Internacional.
O segundo encontro foi realizado em 6 de maio de 1997 entre os presidentes Julio María Sanguinetti e Fernando Henrique Cardoso.
A última visita conjunta ocorreu em 30 de julho de 2010 com a presença dos presidentes José Mujica e Luiz Inácio Lula da Silva.
No começo os dois povoados foram criados com fins militares, como vigilantes mútuos dos interesses de seus respectivos países. Porém, logo surgiu uma cultura de fronteira, alimentada por a necessidade de convivência entre os dois povos, que cada vez mais foram se transformando num só, distanciando-se da visão original que os governos de seus respectivos países possuíam.
É muito comum que famílias inteiras tenham integrantes das duas nacionalidades - e muitos desses integrantes têm as duas. Também é muito frequente que pessoas que moram num lado da linha divisória, trabalhem do outro. É normal que uma pessoa fale em espanhol e a outra responda em português e vice-versa. Também existe um idioma próprio da fronteira, o portunhol fronteiriço, compartilhado por muitos e que quase todos entendem.
O estudo das convenções luso-hispânicas pelo diplomata Fernando Cacciotore em seu livro Fronteia Iluminada, nos revela a força do Tratado de Tordesilhas, cujos trabalhos se desenvolviam ao longo da cumeada da Coxilha de Santana, sobre a qual corre a linha divisória. Ele louva a ação, esclarecida, do monarca brasileiro D. João VI, na condução da política externa para com o Prata. Isso foi observado quando os membros da Comissão Mista de Limites Brasil-Uruguai perceberam que o crescimento espontâneo das cidades de Sant’Ana do Livramento e Rivera fizera com que, ao longo do tempo, construções de ambas as nacionalidades ultrapassassem os limites de seus respectivos países. Assim sendo, por convenção assinada em janeiro de 1920 entre o Brasil e o Uruguai, resolveu-se alterar a linha de limite, por entre as cidades de Livramento e Rivera, de modo a que refletisse exatamente a ocupação dos dois países pelos dois lados da cumeada em todo o trecho urbano, aspiração que já havíamos demonstrado algumas vezes entre 1895 e 1901.
Os espaços nunca são inocentes, têm memória, a nossa, individual e a coletiva, que vão se acumulando através de episódios significativos da história, expressões arquitetônicas e literárias. Como abordam os estudos sobre memória coletividade Maurice Halbwachs e Pierre Nora, os lugares da memória são como um palimpsesto. Ou seja, os pergaminhos gregos utilizados para escrita. Reutilizados, sobrepostos estão a outros, conforme o tempo os vai apagando, vão surgindo vestígios daqueles que ainda estão lá, que não se apagaram completamente. No entanto, estão todos lá acumulando historicidade como o pergaminho que se raspa para novamente escrever deixando as camadas com a escrita anterior nítida.
Embora assegure lugar na história, a memória, no entanto, exige cuidado, pois às vezes coloca relatos forjados no presente a partir de interesses e julgamentos morais. Desta forma os espaços, paisagens, cidades, pessoas, se configuram à medida que “nós escrevemos ou apagamos” as lembranças que estão dentro da memória coletiva. Precisamos olhar esse espaço transformado, destruído, desgastado pelo tempo, a cidade do passado. Foi com essa intenção que investiguei as origens do espaço que hoje denominamos Parque Praça Internacional em minha pesquisa sobre o lazer fronteiriço.
A Praça Internacional está localizada no centro das cidades de Santana do Livramento e Rivera, no coração da fronteira. Em 1851 foi assinado o Tratado de Limites entre o Uruguai e Brasil, definindo-se a necessidade de demarcação da linha de fronteira entre a localidade de Serrilhada e Masoller. Também foi definida a instalação de marcos delimitadores na extensão de toda fronteira brasileiro-uruguaia. Posteriormente, na década de 1910, a demarcação na região onde atualmente está instalada a Praça Internacional foi realizada de maneira distinta das outras.
Conforme escreveu o historiador Ivo Caggiani, a praça foi criada com objetivo de substituir o usual “divisor de águas” comumente utilizado para definir e marcar o território de fronteira: “tal método demarcatório é estabelecido pela própria natureza, quando a água da chuva, ao cair, corre uma parte para cada lado, determina a linha por onde deve passar a fronteira”. No entanto na região da futura praça, ao contrário de áreas rurais e periféricas, não foi possível instalar balizas divisórias. No espaço de aproximadamente quatro quilômetros havia construções dos dois lados que excediam a linha de fronteira. O local que divisava as casas era constituído de um terreno irregular, arenoso e com mato fechado, que ao centro abrigava uma pequena lagoa. Era o “areial” ou “tierra de nadie”, como era chamado pela comunidade fronteiriça, que se valia do local para uma série de atividades ligadas ao esporte e lazer.
A história de sua criação teve vários protagonistas, foram muitos encontros diplomáticos até a conclusão do projeto que vemos hoje. Em 1919, reuniram-se para definir os limites fronteiriços os diplomatas chefes da Comissão Mista de Limites, o uruguaio Virgílio Sampognaro e o brasileiro, ministro Mariscal Botafogo. Em 1924, na cidade de Montevidéu, em uma reunião, os dois diplomatas teriam acordado o projeto da praça comum aos dois países, determinando que no centro dela estivesse um grande marco decorativo. Em 1925, os diplomatas reunidos em Santana do Livramento, ao finalizarem as reuniões as autoridades brasileiras e uruguaias determinaram dar continuidade a construção desse espaço internacional. Surgiu a ideia de um projeto de revitalização daquele espaço: uma praça moderna, com arquitetura arrojada que servisse as duas comunidades, acompanhando a urbanização da região. Entretanto, após várias negociações e concepções arquitetônicas apresentadas, o projeto definitivo apareceu mais de uma década depois, em maio de 1938, em Rivera. O projeto urbanístico atual chegou pelas mãos do arquiteto riverense vinculado à Intendência, o maçom Modesto Paez Seré, que buscava traduzir a unidade e irmandade cultural das cidades de Santana do Livramento e Rivera, inspirados em símbolos deliberadamente maçons. O projeto estava em sintonia com os ideais dos governos uruguaio e brasileiro no momento de sua criação, pois a praça foi “construída para dividir e unir estas cidades”. Um projeto gestado para marcar a história urbanística da região que posteriormente serviria de modelo para outros países, pois se dedicava a acentuar a irmandade entre os povos.
Lembrando novamente que os espaços não são inocentes, que têm interesses e memórias distintas, Fernando Aínsa alerta que podemos descobrir “consternados, que o triunfo de la ideologia intenta ser la medida de la memoria seletiva que controla y jerarquiza.”
Assim a Praça Internacional foi inaugurada em 26 de fevereiro de 1943, quando o mundo ainda vivia os horrores da Segunda Guerra Mundial. O espaço comum, sugerido pelo ministro Vigílio Sampognaro foi constituído para “todo él brasileño, todo él uruguayo”, ou seja, livre de divisas entre os dois países em um mesmo espaço. Assim, quando penetramos nesse espaço, não estamos em um “lado brasileiro” ou em um “lado uruguaio” estamos dentro dos dois países ao mesmo tempo. Por muito tempo a comunidade e turistas que visitaram e continuam visitando a fronteira, levados muitas vezes, pelo senso comum divulgado pela publicidade e mídia, tiveram essa imagem equivocada.
O antigo Areial, transformado em um ambiente dotado de uma estética contemporânea, obedecia a um impulso modernizador dos grandes centros urbanos, ao mesmo tempo em que indicava ao mundo o exemplo “de civilidade, fraternidade e igualdade entre as nações”, conforme informavam artigos da época. Por outro lado, convém aqui lembrar o cenário cultural daquele momento, determinando expectativas em torno do conceito do novo, do moderno. A palavra se encontrava impregnada no imaginário da sociedade brasileira em contraposição a tudo que remetesse ao que era antigo, ou seja, em um passado recente. No momento que as autoridades diplomáticas decidem-se pela construção do espaço, podem-se verificar mudanças de hábitos e comportamentos nas comunidades: da emergência do automóvel em substituição às antigas volantas, o calçamento das ruas centrais em troca “das antigas ruas empoeiradas,” a abertura de novas e largas avenidas, as lojas amplas e envidraçadas, enfim ocorre uma mudança de costumes. No cenário brasileiro, portanto, o conceito de que o novo substitui o antigo, originou-se nos primeiros anos da república brasileira através de ações dos governantes militares positivistas impregnados com a filosofia de Augusto Conte. Ocorre um remodelamento nos centros urbanos, apagando os vestígios da feição colonial nas cidades. Na fronteira, a partir dos anos 40 aparecem discursos que se constituem entre conflitos e diferenças culturais que reservam ao novo espaço o símbolo da paz.
Em minha visão, o imaginário da comunidade fronteiriça é impregnado por um discurso unificador das nacionalidades que se constituem entre conflitos e diferenças culturais estabelecidos pelos interesses dos governantes e imprensa local.
Na fronteira, observa-se o empenho dos governos municipais em promover uma campanha de revitalização dessa região comum às duas cidades. As primeiras décadas do século XX haviam sido de crise econômica e social na região. É dada a largada para algumas políticas direcionadas ao desenvolvimento do setor turístico local. Observamos algumas leis riverenses instituídas na década de 1930:
Ley de creación de "ciudad de Turismo": 22 de diciembre de 1936.
1938: primera excursión "fonoeléctrica". Eran trenes donde se escuchaba música durante el viaje, toda una novedad.
Enenero de 1941 se formo La Comisión de Fiestas y Turismo. Enenero de 1942 se inaugura el Club Uruguay. En agosto de 1942 el Casino.
Enfebrero de 1943, inauguração do Parque Internacional e a revitalização do comércio do Largo Internacional.
Em Santana do Livramento, surgem várias salas de cinema, após a Segunda Guerra os passeios tradicionais da população abandonam a Praça Gal. Osório e procuram as ruas amplas da vizinha Rivera, A calle Sarandi com seu aspecto largo, arrojado, cativa os jovens aos passeios dominicais a peatonal e seus cafés, cinemas, lojas e novas lanchonetes.
Nelson Moreira observa em seu livro sobre a construção do passeio que a vida urbana fronteiriça nos anos 40 em nada se assemelhava com a realidade dos anos 20 quando foi proposta a construção. Embora o projeto do arquiteto Paes Seré fosse o mesmo aprovado em 1938, com “leves modificações’, as cidades haviam se modificado, se urbanizado:
“A população flutuante se destacava na paisagem fronteiriça, a frequência de aeronaves e empresas interdepartamentais de ônibus”, excursões fonoelétricas faziam crer que “havia uma fronteira pujante, em que já sobrava e molestava o Areal.”
Em meados de 1941, finalmente, após anos de debates, reuniões diplomáticas e sete ou oito projetos oficiais, emerge dos gabinetes a concepção arquitetônica que temos atualmente. Infelizmente neste mesmo ano, faleceu o arquiteto mentor da Praça Internacional. Contudo, em abril de 1942, após a assinatura da ata de inauguração dos trabalhos pelos representantes oficiais dos presidentes da república uruguaio e brasileiro, iniciaram as obras de construção do espaço. A remodelação acontecia também no entorno da nova praça. Nas ruas centrais de Rivera, o reboliço estava na concretagem das ruas centrais, no corte dos nostálgicos plátanos, tão estimados e cantados por Olyntho Maria Simões e Agustin Bisio. “Desaparecia assim uma rua aldeã e em seu lugar se abria uma rua ampla e concretada, com veredas novas e amplas. Em um ano se apagou uma época, ainda que a novela postergasse a nostalgia por bastante tempo” relatou Nelson Moreira. Havia consternação com os cortes dos plátanos e o Areial, contudo as obras seguiram seu destino.
E na manhã de sexta-feira pré-carnavalesca, para celebração inesquecível na história das cidades, inaugura-se a tão esperada Praça Internacional. Após vinte anos de negociações e trâmites diplomáticos, uma multidão estava presente para assistir o final dessa partida. As bandeiras de todos os países americanos dançavam enfileiradas ao vento. O desfile de tropas e de bandas militares, estudantes e instituições dos dois países foi registrado por jornalistas de diversos lugares. As ausências dos presidentes uruguaio, General. Arq. Alfredo Baldomir e brasileiro, Getúlio Dornelles Vargas foi sentida e registrada nos diários e na memória da população fronteiriça. Embora enviassem representantes oficiais, do lado oriental, Ministro do Interior Hector Genoma, e brasileiro, Ministro do Trabalho, Comércio, Justiça e Interior, Dr. Alexandre Marcondes Filho. Com convidados oficiais, a viúva do arquiteto criador do projeto Sra. Páez Seré presente além uma multidão de populares, muitos viajaram de cidades vizinhas, estava inaugurada oficialmente a Praça Internacional.
A construção de uma praça central, na divisa das duas cidades delimitando imaginariamente duas nações foi sem dúvida, um elemento significativo dessa política. Nesse sentido, podemos estimar que os governos buscassem a construção de um símbolo, um marco, uma identidade que diferenciasse essa fronteira daquele cotidiano tumultuado da Segunda Guerra Mundial instalada no continente europeu. Como sugeriu um escritor peruano, em passagem pela fronteira, “justamente quando o mundo agitava-se diante desse conflito, a região apresentava-se como um exemplar da "civilidade" latino americano”.
Entretanto é importante relembrar a importância do antigo Areial para as novas gerações. O espaço esteve presente ao longo dos anos no cotidiano da comunidade fronteiriça, que privilegiou o local como espaço genuíno do lazer. Do ancestral descampado, chamado Areial, aos anos recentes da moderna Praça Internacional, esse espaço afirmou-se como um local político, cultural e econômico para as cidades. Situado na linha de fronteira o Parque vai se mostrar também um espaço de negociação, abrigando exilados e fugitivos nas recentes ditaduras que abalaram Brasil e Uruguai.
Retrocedendo algumas décadas, encontraremos outro espaço em um mesmo espaço. As cidades viviam uma crise social e econômica, o Areial com frequência era referência de esporte e lazer das comunidades. Na paisagem desse descampado “Areial da linha”, ou “tierra de nadie”, lugar baldio, irregular e de matagais, improvisavam-se atrações culturais como espetáculos de circos, cinema mudo, cavalhadas, canchas de tênis, futebol e hockey. Havia ainda os chopes ruivos da cervejaria Gazapina, vendidos nos Kiosques El Ribot e Biquita localizados na parte alta do Areial, na Avenida das Palmeiras (atual Largo Dr. Hugulino Andrade), que ajudava a distrair a plateia.
O Areial das décadas de 20 e 30 contrastava com seu vizinho, o Cine Theatro Cabaret Internacional, um esplendoroso prédio, império da boemia, onde a roleta e o pano verde serviam de pretexto para espetáculos luxuosos. Atrações internacionais e muito champanhe, espetáculos artísticos e serviço de restaurante sofisticado. O luxo do Cabaré- Cassino impunha-se em contraste com a escuridão daquele descampado Areial, que abrigava atrações circenses e ciganas para a maioria da população. Em muitas ocasiões o local também foi palco de violência e mortes, ajuste de contas entre capangas e contrabandistas. Segundo noticiou um jornal santanense, O Republicano, era "lugar perigoso, esconderijo para bandidos". Portanto, longe de constituir-se no atual espaço privilegiado do Parque, o Areial era considerado um espaço público livre de qualquer valor moral ou mitificador. Em seus bons dias o lugar tornou-se referência da diversão à comunidade. O memorialista Cirino, reconstituiu seu espaço:
“A linha era uma zona de chácaras e potreiros, era mais uma estrada barrenta, em dias de chuva do que propriamente uma rua para o pedestre transitar, o transito era a pé, em carros ou carroças de tração animal; na cidade havia uns quatro automóveis de particulares [...] revolucionários emigrados, entre os oficiais Siqueira Campos, Cordeiro Campos, entre outros, estabeleceram-se como comerciantes em Rivera, e alguns outros, menos afortunados, acamparam nas imediações do Cerro do Marco”.
Assim como numa colcha de retalhos, os moradores dessa fronteira buscam rememorar sua juventude através dos lugares que visitaram, das cenas pitorescas que viveram e que preenchem o universo de suas recordações. O passado é vivenciado como outra época, perseguido constantemente nas lembranças de outra cidade e seus espaços perdidos na memória. Memória que também é um espaço pantanoso e construído conforme nossas lembranças, erguido em experiências pessoais onde muitas vezes certas vivencia são relevadas em função de outras, essa é a construção da memória.
O barbeiro Humberto Bisso, que viveu intensamente esses dois espaços temporais, o do Areial e do Parque Internacional sabiamente, costumava lembrar, que os dois tinham muito em comum, pois se foram locais de disputa e violência, também ofereceram muita diversão, para a população: “tu sabe, essa praça nova que está ai, veio muito tempo depois do antigo Areial”. Divertia-se com os colegas ao ver a passagem das moças que iam trabalhar no Cassino Internacional,” todas elegantes de salto alto e caminhando e tropeçando no arenal”. Pois não foi nela que ele viu “caírem mortos operários comunistas do Armour em uma noite fria de primavera? Assim como em 1956, emocionado viu passar na mesma vereda da praça, a comitiva de boas-vindas ao Presidente JK Juscelino Kubitscheck, quando visitou a cidade em seu centenário.
O Parque Praça Internacional é um espaço sentimental, cada um tem um parque dentro de sua memória, que ao longo do tempo foi metamorfoseando-se em diversos espaços da memória e sentimentos.
Se nos anos 1930, o Areal foi espaço dos desmandos caudilhescos e de pistoleiros, trazendo notícias diárias nos jornais que lembravam aos fronteiriços que aquele era um espaço dominado pela violência, a população também recorria a ele quando queria diversão seja pela chegada de circos, as sessões no cinema mudo do gordo Ducos, quando havia partida de futebol ou cavalhadas, afinal ali também encontrava-se o lazer, comum as duas cidades.
Após a inauguração do novo espaço internacional, entre meados dos anos 1940 e 1950, a Praça moderna e ampla seduzirá outras gerações de famílias, que disfrutam o lazer moderno, com seu entorno repleto de lanchonetes e restaurantes. Espaço para caminhadas, piqueniques, esporte, fotografias e namoros. Espaço dos lambe-lambes que desde então, eternizaram nos retratos sua população e a de turistas. Os passeios depois das sessões do cinema e matinés dominicais. Mas também foi em suas calçadas, no novíssimo Largo Internacional que ocorreu a chacina dos militantes comunistas mortos, quatro homens que, nas palavras da poeta Lila Ripol, “ousaram sonhar com um mundo mais justo”!
Nos domingos havia o encontro semanal dos imigrantes árabes libaneses e palestinos aos pés do Obelisco, que ali conversavam na língua mãe, fechavam negócios e tomavam chimarrão, apropriando-se de novos costumes,
Na década de 60 e 70, o lugar se estabelecerá como um Parque-espaço da solidariedade e do exílio, lugar de passagem de perseguidos das ditaduras brasileira e após, uruguaia. Em seus arbustos ocultaram-se documentos e armas dos guerrilheiros. Por suas alamedas passearam jovens idealistas vindos de outras regiões do país. Entretanto, a praça ainda é espaço de lazer, namoros, fotografias, esportes, de encontros de presidentes militares que exibem sua diplomacia e divulgam convenientemente a irmandade inscrita no marco do obelisco.
Os anos 80 lembrarão de que o Parque ainda é espaço lúdico de diversão, de lambe-lambes, da sociabilidade adolescente, dos encontros fortuitos, de amantes, de prostituição. Contudo liga seu alerta vermelho denunciando o início de sua descaraterização, com a chegada de trailers gastronômicos e bancas de artesanato, aos poucos a economia informal vai se aproximando até se estabelecer sem a devida fiscalização. A limpeza, os cuidados de jardinagem e manutenção que desde sua inauguração foram dados às administrações municipais iniciam seu lento processo de deterioração.
Estaria a Praça moderna retornando a ser aquele local esquecido lá no passado, uma "terra de ninguém?"
Entramos nos anos 90, e nosso símbolo da irmandade, imóvel, não reconhece o esplendor de poucas décadas passadas. O espaço será da prostituição, de shows musicais e espaço de manifestações políticas, dos parques de diversões.
A partir dos anos 2000, a praça agoniza, pede socorro, o espaço é do abandono. Porém ainda é apreciado para o desenvolvimento da cidadania com as manifestações políticas, da diversidade, eventos culturais como a Feira do Livro Binacional. Também abrigam festivais de ovino e vinho, cultos religiosos, festivais nativistas e recentemente, gastronômicos. Ainda temos uma área concebida originalmente para descanso e lazer.
2001 – Crianças tomando conhecimento de que ali se encontrava a fronteira entre dois países, duas cidades: Santana do Livramento (BR) e Rivera (UY)
Antes da criação do Parque, foram mais de vinte anos gerando um espaço monumento, que iria perpetuar ao mundo os valores da irmandade, igualdade e fraternidade, um espaço genuíno de lazer e descanso.
Nota do blog: Data não obtida.
Retrato de Uma Jovem Solteira em Uma Penteadeira (Portrait of a Young Maiden at a Dressing Table) - Hans Hamza
Retrato de Uma Jovem Solteira em Uma Penteadeira (Portrait of a Young Maiden at a Dressing Table) - Hans Hamza
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