domingo, 1 de dezembro de 2019

A Tela Santa Praxedes Atribuída a Johannes Vermeer é Realmente Verdadeira ou Uma Falsificação? - Tamara Follesa



A Tela Santa Praxedes Atribuída a Johannes Vermeer é Realmente Verdadeira ou Uma Falsificação? - Tamara Follesa
Artigo


Con la fine dell’estate, approfittando di qualche giornata di pioggia e momenti di naturale calo lavorativo, ho dedicato il tempo a disposizione per riprendere in mano diverse faccende, riordinare le carte del passato, svuotare casse e bauli: fare ordine tra le cose che ci appartengono da sempre, ma che spesso dimentichiamo, dimenticandoci con essi luoghi, viaggi, ricordi, momenti vissuti, dialoghi tenuti in lunghi pomeriggi, dibattiti accademici avuti con straordinari colleghi, amici e mentori, a cui, talvolta è tempo di ridare ascolto. Sistemando la mia straripante libreria e le casse piene di volumi e riviste d'Arte, mi sono così imbattuta in un vecchio numero del "Giornale dell'Arte", in cui, risfogliandolo a distanza di qualche anno, ha catturato la mia attenzione un articolo dell'Agosto 2014, sulla preannunciata vendita da Christie's di una "Santa Prassede" (Olio su tela 101,6 x 82 cm.) proveniente dalla collezione della mecenate polacca Barbara Piasecka-Johnson datata 1655 e attribuita a Johannes Vermeer , dipinto presumibilmente agli esordi della sua carriera artistica. La nota Casa d'Asta, propose una nuova campagna di indagini condotta dal RijksMuseum con il supporto dell'Università di Amsterdam, che riportò elementi che ricondurrebbero in maniera incontrovertibile all’ambito olandese, eppure a discapito del buon esito scientifico, qualcosa sembra ancora non convincere del tutto studiosi e collezionisti. Così ponendomi alcune domande, nasce la mia analisi con considerazioni basate su un approfondimento delle indagini.  
L'opera in quella occasione fu proposta per una stima piuttosto bassa rispetto alla reale convinzione e certezza di un attribuzione che potesse essere condivisa ed accolta all’ unanimità dalla Comunità Scientifica. Sono naturalmente propensa a pensare che fu una scelta prudente da parte di Christie's, permettendo eventualmente così di essere lo stesso mercato antiquario attraverso il parere di collezionisti esperti e raffinati, a valutare il reale riconoscimento di paternità dell'opera, ma ahimè, le attese furono deluse, e la risposta ottenuta non  soddisfò le aspettative. L'opera fu stimata tra 6.000.000 – 8.000.000 di Sterline, e aggiudicata per “soli” 6.242.500 Sterline, poco al di sopra della stima minima proposta. 
Il corpus pittorico di Vermeer riconosciuto all'unanimità, è costituito da 35 opere, un numero assai esiguo, dovuto alla lentezza dell’Artista nel dipingere piccole opere da cavalletto e una carriera artistica assai breve, dovuta alla morte a soli 43 anni, dopo aver condotto una vita modesta, lasciando la famiglia in gravi difficoltà finanziare. I debiti lasciati da Vermeer furono risolti dai familiari mettendo all’ Asta gran parte dei dipinti dell’Artista nel 1696 (in quella occasione furono venduti 21 dipinti). Nel 1676, un anno dopo la sua morte, venne redatto un inventario dei beni di sua proprietà e le opere messe all’ incanto dai familiari vennero descritte in un catalogo del 1752 da G. Hoet; attraverso questi documenti abbiamo le attestazioni più importanti per l’attribuzione certa di 33 opere al pittore, (di cui uno trafugato nel 1990 “Il concerto” Olio su tela 72.5 cm × 64.7 cm. Isabella Isabella Stewart Gardner Museum in Boston,) a queste si aggiungono i due dipinti conservati alla National Gallery di Washington “Ragazza con il flauto” (Olio su tavola, 20 x 17,8 cm. probabile 1665/1675)  e “Ragazza con il cappello rosso” (Olio su tavola, 22.8 x 18 cm. 1665/66) e tre opere giovanili, che però non godono di pareri concordanti. In ventidue anni di attività gli vengono riconosciute 35-38 opere al massimo considerando le attribuzioni incerte e dibattute, il che significa che mediamente ha realizzato meno di due dipinti all’ anno. Il suo modus operandi è lento e metodico, esegue un quadro alla volta con una tecnica e precisione quasi maniacale, concentrandosi anche nel più minimo particolare dato da luci, toni di colore, sfumature delle ombre. In passato però non fu sempre così, le opere attribuite all’ Artista sono state anche oltre settanta, nello specifico fu il critico d’arte francese Etienne J. Theophilè Thorè nel 1866 a  pubblicare in tre articoli usciti nella "Gazette des Beaux Arts" di Parigi, il suo interesse per Vermeer ampliando sensibilmente quello che era il suo catalogo pittorico. Questo numero certamente troppo alto, fu abbattuto la prima volta nel 1948 riducendo le opere a 43, taglio che proseguì negli anni successivi sino al 1975 quando con la pubblicazione “Johannes Vermeer van Delft 1632-1675”, Albert Blankert fece un taglio ancora più drastico, escludendo quattro opere oggi condivisibilmente riconosciute. Per tutte queste ragioni gli studiosi sono molto poco propensi ad ulteriori scoperte inerenti la sua produzione artistica, considerando inoltre che non sono pervenuti disegni, schizzi o incisioni dell’Artista, che la documentazione risulta essere scarsa, e i dipinti dispersi non sono certo tanti. La “Santa Prassede” datata 1655, sarebbe stata realizzata quando il pittore aveva 22/23 anni: il dipinto andrebbe così a collocarsi all’ interno di quel piccolissimo gruppo di opere giovanili “Diana e le ninfe” (Olio su tela 98,5×105 cm. 1653-56, L’Aja Mauritshuis ) ; "Cristo in casa di Marta e Maria” (Olio su tela 160x142 cm. 1654-55, Edimburgo National Gallery of Scotland); “La mezzana” (Olio su tela, 1656 Dresda, Gemaldegalerie), raffiguranti soggetti religiosi e mitologici, rappresentanti quel genere di pitture che meglio si prestavano per l’esercizio tecnico-pittorico dei principianti che potevano così raggiungere gli alti livelli dei grandi Maestri, specie di quelli della tradizione italiana; nello specifico come è già ampiamente noto, l’opera è copia del dipinto di Felice Ficherelli (San Gimignano, 30 agosto 1605 – Firenze, 5 marzo 1660) pittore italiano attivo in Toscana, conosciuto come “Il Riposo” (“Santa Prassede” Olio su tela, 1645 circa, Ferrara, collezione privata), pertanto una perfetta esercitazione  dei pigmenti, del colore e dei metodi di applicazione di un Maestro Italiano. Nel Settembre 2012 fu allestita a Roma alle “Scuderie del Quirinale” la mostra “Vermeer, il secolo d’oro dell’Arte Olandese” in cui furono esposti 57 dipinti di cui 8 dell’Artista di Delft. Tra questi fu esposta anche la "Santa Prassede", in un inedito confronto con l’originale di Ficherelli, offrendo così ai visitatori una bellissima occasione per poter effettuare un esame de visu dell’opera e approfondirne la conoscenza e vagliarne gli aspetti tecnico-compositivi, stilistico e qualitativi. Certo è che andrebbe sottolineato anche il fatto che di per sé non è l’accostamento a Ficherelli che potrebbe  eliminare ulteriori dubbi o portare conferme circa l’attribuzione a Vermeer, e che anzi forse in quella occasione erano più le domande rimaste in sospeso, che non le risposte, poiché  la vera comparazione utile per avere parametri significativi nel ricondurre l’opera inoppugnabilmente all’ Artista olandese,  andrebbe fatta con le sole tre opere giovanili a carattere mitologico/religioso: una giornata di studi e ricerca con i quattro dipinti uno a fianco all’ altro sarebbe a mio avviso certamente, estremamente costruttiva. Il dipinto fu associato per la prima volta a Vermeer nel 1969, in quell’ anno l’opera fu prestata al Metropolitan Museum of Art di New York per una mostra sulla pittura barocca fiorentina, come di Ficherelli: in quell’occasione fu notata la firma in basso a sinistra “Meer 1655” e lo storico dell’Arte Michael Kitson prese in considerazione l’ipotesi che il pittore olandese avesse potuto fare una copia del modello italiano. 
n questo caso quindi la firma è stata di vitale importanza, poiché senza di essa probabilmente nessuno mai avrebbe considerato l’opera come olandese e non italiana, come sino ad allora era stato naturale pensare. Il quadro fu pubblicato per la prima volta nel 1986 e nel 1995 fu esposto come opera giovanile dell’Artista. Arthur K. Wheelock, curatore alla National Gallery of Art di Washington, sostiene che questo fu il primo dipinto datato dell’Artista. Ma la svolta attributiva, come si può leggere dal Catalogo di Christie’s, fu data nel 2014 dalla campagna di indagini condotta dal Rijksmuseum; secondo l’esito di tali analisi il primo dato da prendere in considerazione è stato che firma e data risultano coeve al dipinto, fugando i numerosi dubbi circa l’apposizione della firma successiva all’ esecuzione dello stesso, tale tesi è stata supportata altresì da ulteriori test eseguiti a Londra da Libby Sheldon, ricercatrice ed esperta di materiali pittorici, nota per aver analizzato 3 dipinti di LS Lowry nel programma della BBC1 “Fake o Fortune”. Le sue osservazioni in merito all’ analisi della firma vengono riportate pedissequamente da Christie’s, citando quanto segue "Sebbene non sia stata raggiunta una conclusione definitiva sulla data esatta della firma, la stabilità della vernice, una volta testata, suggerisce che anch’essa è stata dipinta da molto tempo. La vernice nera che forma l'iscrizione "Meer 1655" non è stata ripassata o rafforzata. Il nero utilizzato ha un aspetto compatibile e similare a quello della vernice nera dell’ombra vicina, e la sua condizione, il modo in cui è invecchiata con il tempo, suggerisce che è vecchia esattamente come il dipinto.” 
All’ angolo destro dell’opera, dipinto sul color ocra chiaro, pare esserci un’altra iscrizione, sfuggita per molto tempo agli occhi degli esperti, “Meer N ... R ... o ... o” ma così frammentaria che nemmeno le analisi sono riuscite a fornire un’interpretazione significativa. La teoria ancora oggi sostenuta, riportata per la prima volta nel 1986 dallo Storico dell’Arte Egbert Havercamp-Begeman, è quella secondo cui la dicitura si potrebbe ipotizzare completa come "Meer naar Riposo", in quanto “Riposo” il soprannome dell’italiano Ficherelli. Inutile sottolineare quanto due firme nella stessa tela siano rarissime per un dipinto del XVII Secolo.  Una domanda che ci si dovrebbe eventualmente porre se non si volesse comunque credere all’ esito riportato dalle analisi, è in che modo e in quali circostanze potrebbe venire aggiunta una firma di Vermeer ad un’opera così improbabile per l’Artista? L’iconografia è decisamente lontana dal Vermeer riconosciuto, e la teoria di un’apposizione successiva  sarebbe stata certamente più sostenibile su un dipinto similare per stile, genere e composizione, ma non è certo questo il caso. 
Il secondo risultato ottenuto dalla campagna di indagini inerente le analisi dei pigmenti ha dimostrato che i materiali utilizzati furono non solo della stessa epoca, ma di ambito olandese, in particolar modo il Bianco di Piombo (per citare le stesse parole di Christie’s) è incontrovertibilmente non italiano. Tale pigmento è stato utilizzato in tutto il dipinto, ed era tra quelli più utilizzati per la pittura a olio del XVII Secolo, prodotto in larga scala, abbastanza economico e facilmente reperibile. Dall’ analisi del rapporto isotopico effettuato presso la Free University di Amsterdam si è stati in grado di risalire alle origini del piombo e distinguere tra i minerali di piombo cisalpino e transalpino, e riconoscere la materia prima principale del piombo contenuto nel pigmento. Questo esame è estremamente preciso, e permette di ricondurre la forma grezza del minerale al pigmento, determinando così se il bianco di piombo proviene da una fonte settentrionale o meridionale, questo ne ha permesso di stabilirne con assoluta certezza, collocando il bianco principale nel gruppo di campioni olandesi / fiamminghi, riconoscendone la paternità nord-europea.  Va detto inoltre che all’ epoca il numero di pigmenti disponibili per qualsiasi pittore era veramente esiguo e che non esisteva la vasta selezione arrivata con l’era industriale e lo sviluppo dell’industria chimica, per cui la tavolozza cromatica di Vermeer era costituita da meno di 20 pigmenti, pertanto è sicuramente estremamente facile ricondurre un determinato materiale alla sua palette, contrariamente è noto ad esempio che la tavolozza più variegata fu probabilmente quella di Rembrandt, di cui sono conosciuti circa 100 pigmenti. Un’altra assonanza con la tecnica olandese fu l’utilizzo di una base di gesso con elementi di bianco di piombo. Una volta stabilita la certa provenienza olandese dei pigmenti, è stato effettuato lo stesso test sul dipinto “Diana e le ninfe” (Olio su tela 98,5×105 cm. 1653-56, L’Aja Mauritshuis), affinché si costituisse un database di informazioni per poter comparare opere realizzate in uno stesso periodo storico e di attribuzione unanimemente accettata dell’Artista. Il risultato ottenuto è stato così straordinario che si è ipotizzato che lo stesso lotto pittorico di pigmenti sia stato utilizzato per entrambe le opere: l’esame tra i due campioni ha fornito una corrispondenza quasi identica di valori di abbondanza di isotopi. (La relazione tecnica degli esami si può avere su richiesta da Christie’s). Tutte queste analisi hanno costituito la prova scientifica incontrovertibile che il dipinto non sia stato realizzato in Italia. Un altro elemento che ha convinto alcuni storici è dato dalla tecnica con cui è stata riprodotta la Santa Prassede. Quando si riproduce un dipinto praticamente fedelmente come in questo caso, da un modello preesistente,  si presuppone che questo venga costruito interamente in un unico blocco sin dall’ inizio, dipingendo prima gli elementi in primo piano per poi arrivare alla parte posteriore, in questo caso invece curiosamente la tecnica adottata dimostra che la composizione è stata costruita strato dopo strato come fosse una composizione inedita, dipingendo prima lo sfondo, aggiungendo sopra la pittura man mano i nuovi elementi, con delle sovrapposizioni dei piani, come se  fossero, per citare il Professor emerito Jorjen Wadum responsabile del reparto di conservazione dello Statens Museum for Kunst, la Galleria Nazionale della Danimarca, dei similpentimenti. Oltre questo va specificato anche che in un esercizio di riproduzione accademica, ai fini di studio del metodo e della tecnica, fosse più improbabile che un Artista lasciasse il proprio segno esecutivo quale impronta inconfondibile della sua mano, al contrario, specialmente in giovane età quando ancora la propria personalità artistica poteva non avere contorni ben definiti, si tendeva ad imitare più possibile il Maestro copiato, poiché un’esecuzione impeccabile sarebbe stata il prodotto del raggiungimento di una tecnica sopraffina. Questo aspetto va tenuto in considerazione poiché a mio avviso è un elemento chiave nell’ affrontare una valutazione stilistica, in quanto la natura imitativa del dipinto rende dissimile l’opera dalle altre composizioni giovanili di Vermeer, pertanto più complesso un eventuale confronto. D’altro canto come fece notare nel 1985 Arthur K. Wheelock, curatore alla National Gallery of Art di Washington, il viso della "Santa Prassede" ha una somiglianza notevole con il viso del dipinto “La cameriera che dorme” (Olio su tela 87.6 x 76.5 cm. 1656–57 c. Metropolitan Museum of Art, New York) realizzato pochi anni dopo. Le due figure sono speculari l’una all’ altra, così per una migliore comprensione comparativa, attraverso l’utilizzo dei moderni programmi di grafica ho girato il volto della cameriera che dorme, nella stessa direzione della Santa Prassede, e come si può notare, le similitudini sono impressionanti. 
Nonostante la positiva campagna di indagini e le argomentazioni proposte a sostegno dell’ascrizione a Vermeer, molti studiosi continuano a sostenere la tesi secondo cui il quadro sia italiano. L’argomentazione più diffusa dai detrattori di questa attribuzione è data dalla domanda (senza risposta) “Quando Vermeer vide l’originale di Ficherelli e potè dipingerla così fedelmente?". Dalle fonti documentaristiche non risulta che il pittore abbia mai viaggiato in Italia, d’altra parte non è nemmeno documentato che l’opera di Ficherelli potesse trovarsi in Olanda (considerando poi che il pittore a malapena si spostava da Firenze), e non risultano sue copie note nei Paesi Bassi. L’unica congettura plausibile quindi rimarrebbe, nell’ eventualità di aver visto una qualche riproduzione, che abbia realizzato la propria tela da una copia non pervenuta dalle fonti e che, se quindi davvero non si è mai spostato, l’unica esperienza con l’arte italiana è collegabile alle sole riproduzioni che potevano essere disponibili in quell’ epoca a Delft. Eppure, contrariamente a questa teoria sostenuta da molti studiosi, io ritengo che la qualità riproduttiva dell’opera di Vermeer sia così elevata, da non poter essere il frutto di una riproduzione di una copia, ma l’esecuzione pittorica eseguita sulla base dell’originale del Maestro, anche perché altrimenti altre questioni dovrebbero essere messe in discussione: se Vermeer non avesse riprodotto il dipinto dall’ originale, che senso avrebbe avuto imitare un Maestro come Ficherelli e soprattutto con un soggetto così particolare e poco diffuso?Se avesse semplicemente voluto copiare un qualsiasi Maestro Italiano ai fini di studiarne la tecnica e la composizione, avrebbe potuto attingere a moltissime copie con una diffusione maggiore di soggetti a carattere mitologico/religioso realizzate da artisti, certamente già da allora, più noti di Ficherelli. Per tali ragioni quindi sono convinta che una scelta simile abbia ragioni ben precise e ben specifiche, e che, anche se non sappiamo ne dove, ne quando, Vermeer abbia visto l’originale di Ficherelli. A tal proposito infatti il Prof. Wheeloock sostiene e suggerisce che nonostante non ci siano attestazioni scritte che lo dimostrino, un qualche spostamento di Vermeer in Italia non è del tutto escluso. Tale congettura nasce dallo studio delle altre opere giovanili dell’Artista le cui composizioni hanno trovato riscontro con dipinti di Artisti Fiamminghi attivi al sud delle Fiandre e a Utrecht, che suggeriscono la familiarità di Vermeer con correnti esterne a Delft, sottese a ipotizzarne degli spostamenti.  In articolo datato 2002, ma a cui si fa riferimento alla mostra di Roma del 2012 quindi è stato certamente aggiornato dopo le più approfondite indagini svolte sulla Prassede, Jone Bone fa un’accurata analisi, in cui diversi studiosi escludono totalmente l’eventualità che l’opera sia di Vermeer concludendo con questa frase “La spiegazione più semplice che copre tutti i fatti del caso è che il dipinto è una copia eseguita sia dal pittore originale, Ficherelli, a Firenze, o da un altro artista nella cerchia di Ficherelli. Le successive firme sul dipinto si riferiscono probabilmente a uno o più dei tanti artisti dell'epoca con il nome di Meer o van der Meer, non Johannes Vermeer di Delft.” 
Chissà se poi alla luce degli esiti scientifici del 2014 qualcuno si sia ricreduto? 
Nel 2008, anche in questo caso quindi antecedentemente alla nuova campagna di analisi, uno studio della Storica dell’Arte Francesca Baldassari, massima esperta di Seicento fiorentino, nella monografia dedicata al pittore toscano Simone Pignoni, autore di una “Santa Prassede” (Olio su tela, 89 x 74 cm. 1626/1698, Museo del Louvre, Parigi), fece riferimento alla tela proveniente dalla collezione Piasecka-Johnson con una convinta attribuzione ascrivibile alla mano di Felice Ficherelli. 
Ma al quadro sino ad ora narrato, le cui asserzioni tutto sommato non sono nuove, si aggiunge un altro tassello interessante. Il 17 Ottobre 2017 la Casa d’Asta Dorotheum, ha messo per la prima volta all’ incanto nella sua storia, un altro modello, conservato per secoli in collezione privata, pressoché similare nella composizione, ma molto più intenso e vibrante nei cromatismi, e a mio avviso di qualità superiore, dell’opera di Felice Ficherelli, rappresentante la "Santa Prassede" (Olio su tela, 115 x 90 cm.). Il dipinto presentato con cornice fiorentina coeva in legno intagliato e dorato, è stato stimato tra 150.000/200.000 Euro, e aggiudicato per 350.508 Euro. Gli studiosi sostengono che questa fu la prima versione dipinta da Ficherelli; le analisi tecniche del dipinto, nonché la radiografia della tela eseguite dal Prof. Gianluca Poldi, specializzato in analisi scientifiche dedicate allo studio e alla conservazione di opere d’arte, hanno messo in evidenza una serie di pentimenti da parte dell’Artista: la struttura architettonica sulla destra risultava essere più ricca, ed era presente una colonna toscana sulla sinistra; inoltre il martire decapitato a terra pare fosse concepito in maniera differente. Da queste scoperte pertanto, considerando che gli altri due esemplari seguono la linea compositiva visibile del dipinto, si è portati a pensare che questo fosse il primo modello realizzato. Sovente le immagini divulgate online delle opere d’arte non corrispondono alla tonalità cromatica originale del dipinto, e questo porta ad uno sfasamento dei valori tonali che può compromettere notevolmente la lettura di un’opera se non si dispone dell’originale. Come si può verificare attraverso il video proposto da Christie’s i colori più verosimilmente affini alla visione dal vivo della Santa Prassede venduta nel 2014, tendono più al rossastro, e non al rosa come nelle immagini più largamente diffuse.
Alla luce dello svelamento di questa nuova versione, di cui comunque se ne conosceva l’esistenza già da tempo, ci si può porre un altro quesito: quale delle due Vermeer avrà realmente visto e copiato? 
Nel 2014 in una bella intervista alla Famiglia Fergnani, qui proprietari dal 1970 del modello più noto della Prassede di Ficherelli, dichiararono di non essere a conoscenza di altre copie del quadro, spesso ipotizzate, ma delle quali non si riscontrava traccia tangibile. Eccolo rinvenuto grazie alla vendita di Dorotheum.
Precedente a queste tre versioni pittoriche della "Santa Prassede", è senza dubbio un disegno sempre di Felice Ficherelli conservato al Museo degli Uffizi di Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe (N. Inv. N. 3705 S) che differisce nello sfondo, in cui al posto della costruzione architettonica è visibile un’approssimazione vegetale di piante e terreno erboso con un piccolo tempio romano all'orizzonte.  
Come accennato precedentemente, nella scelta imitativa di Vermeer, colpisce un soggetto così specifico e poco diffuso rispetto al mito di altri Santi. Molti studiosi sono concordi nell’ argomentare tale specifica scelta con la conversione del Pittore di Delft al cattolicesimo poco prima di sposarsi il 20 Aprile 1653.  Wheelock sostenne più specificatamente che tale preferenza potrebbe essere interpretata come una inequivocabile dichiarazione da parte dell’Artista nei confronti della fede cattolica. Prassede era una vergine romana vissuta nel II secolo, ritenuta secondo la leggenda, assieme a Pudenziana, figlia del Senatore Pudens, che ospitò San Pietro nella sua casa. Pur non subendo il martirio, prestò assistenza ai cristiani condannati, raccogliendone il sangue con spugne, lavandone e seppellendone i corpi. (J. Hall “Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte” 1974, Longanesi & C. Milano, pag. 337) . L’ideazione compositiva di Ficherelli dal carattere così devozionale, è inedita nel suo genere, nessun altro prima di lui aveva rappresentato la Santa in quel modo. La più nota Prassede che mi viene in mente è quella di Antonio Carracci (Olio su tela, 98 x 127 cm. 1606/1609 Pinacoteca Nazionale di Bologna, Acquisita dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali nel 2016), la cui rappresentazione in piedi ne conferisce minor coinvolgimento e pathos nel prodigarsi nel gesto di raccogliere il sangue dei cristiani; alcune versioni realizzate da Pulzone Scipione in cui Prassede viene raffigurata seduta; un modello di ambito lombardo di Bernardino Luini con la giovane rappresentata a mezzo busto (retaggio dei ritratti leonardeschi) e quella forse più certamente drammatica ed evocativa di Simone Pignoni (Olio su tela, 89 x 74 cm. 1626/1698, Museo del Louvre, Parigi) . Nell’Archivio della Fondazione Zeri in cui si possono vedere i modelli citati, stranamente non è presente l’esemplare di Ficherelli. A questi si aggiunge un bel modello di Prassede in stato contemplativo dipinto da Giovanni Lanfranco venduto da Sotheby’s nel 2015.  
Esistono opere nella Storia dell’Arte largamente imitate, è molto facile trovare per alcuni soggetti svariate copie, spesso realizzate in epoche più tarde, tra metà Settecento e metà Ottocento. Curiosamente, eccetto le due versioni di Ficherelli e la versione attribuita a Vermeer, nonché lo stesso disegno preliminare di Ficherelli, non risultano copie in merito. Personalmente, oltre le informazioni già note, ho provato ad effettuare diverse ricerche incrociate nei più importanti database mondiali per l’archiviazione di immagini di opere d’arte, ma tale ricerca non ha prodotto nessun risultato, se non la conferma di quanto noto dell’assenza di ulteriori copie, anche se fossero di scuola minore e bassa qualità, dell’iconografia prassediana del Ficherelli. Naturalmente tale ricerca non ha carattere specifico di studio, per cui non è stata approfondita nella maniera più accurata possibile, pertanto ulteriori esplorazioni certamente farebbero ben sperare in altri esiti, e se qualcuno avesse approfondito studi e ricerca sull'iconografia della "Santa Prassede" e lo stile compositivo inventato dal Ficherelli, la condivisione e il dibattito, sono sempre molto graditi. 
A questo punto però rimane un’altra domanda senza risposta: come è possibile che solo Vermeer si sia cimentato nella copia di quest’opera?
Possibile che nessun altro abbia considerato il dipinto, così unico, un bel modello da riprodurre? 
All’ interno dell’accurato sito Essential Vermeer, il portale interamente dedicato alla ricerca sull’ Artista Olandese, a cura dello Storico dell’Arte e Pittore Jonathan Janson, di cui ne è autore e webmaster, che probabilmente,  considerando non solo l’ampia ricerca, ma la natura della sua produzione artistica, ha fatto di Vermeer una vera e propria ossessione, inserisce un simpatico tool per la votazione aprendo il dibattito con gli appassionati tra gli addetti ai lavori e non, che si saranno imbattuti nel suo portale, ponendo questa domanda: 
“Credi che questo dipinto sia un’opera autentica di Johannes Vermeer?”



















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