segunda-feira, 28 de janeiro de 2019

O Encontro de Vittorio Emanuele II e Garibaldi em Teano, Teano, Itália (L'Incontro di Vittorio Emanuele II e Garibaldi a Teano) - Carlo Ademollo

O Encontro de Vittorio Emanuele II e Garibaldi em Teano, Teano, Itália (L'Incontro di Vittorio Emanuele II e Garibaldi a Teano) - Carlo Ademollo
Teano - Itália
Museu de Capodimonte Nápoles
OST - 1878


Dopo la sconfitta dell’esercito pontificio a Castelfidardo e la presa di Ancona, Vittorio Emanuele II assunse il comando supremo delle forze militari sarde, il 3 ottobre, e, con al fianco il ministro dell’Interno Luigi Carlo Farini e il ministro della Guerra Manfredo Fanti, varcò i confini del Regno borbonico il 10 ottobre 1860.

L’esercito sabaudo avanzò lungo la costa adriatica e si diresse verso la Terra di Lavoro, dove erano stati inviati, per ostacolare l’avanzata piemontese, un migliaio di soldati borbonici, comandati dal generale Luigi Scotti-Douglas, supportati anche da alcune migliaia di contadini insorti, le cui ribellioni, ormai, si stavano diffondendo sempre più nel Molise, nell’Abruzzo e nel Sannio.

Il 17 ottobre, infatti, una colonna di circa 1.200 volontari comandata da Francesco Nullo, partita da Maddaloni per ristabilire l’ordine, venne attaccata e sconfitta, fra le gole di Pettorano e Castelpetroso, vicino Isernia, da alcuni reparti borbonici affiancati da migliaia di contadini insorti.

Tre giorni dopo, però, il 20 ottobre, le truppe sabaude comandate dal generale Cialdini sconfissero i borbonici e le bande contadine al passo del Macerone ed occuparono Isernia. Nei giorni successivi l’esercito piemontese occupò Venafro e si diresse verso Capua mentre le truppe borboniche, temendo di essere accerchiate, si ritirarono verso il fiume Garigliano lasciando soltanto una guarnigione a Capua.

La ritirata dei borbonici permise a Garibaldi, con i suoi uomini, di passare il Volturno il 25 ottobre e di avanzare verso Teano per incontrare l’esercito piemontese.

Il generale, che veniva da Caiazzo, e Vittorio Emanuele II, che veniva da Venafro, si incontrarono, la mattina del 26 ottobre 1860, lungo la strada che porta a Teano, al quadrivio di Taverna della Catena, presso Vairano, nel punto dove si incontrano le strade di Cassino-Calvi e Venafro-Teano.

Dopo aver cavalcato insieme per alcuni chilometri, scesero da cavallo, probabilmente nei pressi del ponte di Caianello, e continuarono la loro conversazione seguiti dai loro ufficiali. Poi ripresero a cavalcare e arrivarono a Teano dove il re si diresse verso Palazzo Caracciolo mentre Garibaldi si avviò in una stalla ai margini del paese.

Vittorio Emanuele II, nel colloquio con Garibaldi sulla strada per Teano, gli comunicò che le operazioni militari, da quel momento, sarebbero state condotte dall’esercito regio e che avrebbe concesso ai volontari di essere soltanto la riserva delle truppe che combattevano sul Volturno.

Per i liberali, Cavour in testa, era fondamentale dimostrare alle diplomazie europee che l’avventura rivoluzionaria era finita e che l’ordine politico-sociale veniva garantito da una monarchia che metteva fine alla dittatura garibaldina e si poneva come argine per l’invasione dello Stato pontificio e di Roma.

L’intransigenza sabauda, probabilmente, era il pegno che andava pagato nei confronti delle diplomazie europee che vedevano nella formazione dello Stato nazionale italiano un pericoloso sovvertimento dell’assetto internazionale elaborato dal Congresso di Vienna.

L’incontro tra il re Vittorio Emanuele II e Garibaldi, che una retorica celebrativa ha spesso rappresentato come il risultato della concordia tra le differenti forze politiche che concorsero all’Unità d’Italia, significò, piuttosto, il definitivo passaggio della leadership del processo di unificazione nazionale dai democratici ai liberali.

D’altronde il rapporto di forze tra i mazziniani e i garibaldini, da un lato, e il “partito” liberal-monarchico, dall’altro, era già stato profondamente modificato con l’indizione dei plebisciti che, il 21 ottobre, avevano certificato l’annessione del Mezzogiorno continentale e della Sicilia al Regno sabaudo.

Lo svolgimento dei plebisciti, infatti, ponendo fine alle forti tensioni che, sin dal mese di giugno, avevano contrapposto i fautori dell’annessione dei territori conquistati, come il marchese Giorgio Pallavicino, ai sostenitori dell’Assemblea costituente aveva di fatto sanzionato la vittoria e l’egemonia moderata sul processo di unità nazionale.

D’altro canto, l’evoluzione dei combattimenti sul Volturno aveva già fatto comprendere a Garibaldi dell’assoluta necessità, per le sorti della campagna militare, dei battaglioni sardi. E infatti, la sua prima richiesta a Vittorio Emanuele II, non appena il re varcò il Tronto, consistette nel riconoscimento dei gradi per i suoi ufficiali.

Inoltre, Garibaldi era ben consapevole, che lo svolgimento dei plebisciti il 21 ottobre aveva segnato non solo la sconfitta di coloro che volevano l’Assemblea costituente, ma anche dei mazziniani più intransigenti che volevano portare la rivoluzione nello Stato pontificio per andare alla conquista di Roma.

I margini di iniziativa per Garibaldi, una volta esclusa ogni ipotesi di conflitto fratricida con le truppe regie, si erano dunque ridotti soltanto all’attesa di Vittorio Emanuele II e dell’esercito piemontese. L’incontro tra il “duce dei Mille” e il re sabaudo sancì, però, anche l’inizio di quel processo di emarginazione dei garibaldini dalla scena politica e militare nazionale che caratterizzò gli anni successivi l’Unità d’Italia.

Nel volgere di poco tempo – anche se i volontari collaborarono alla presa di Capua sotto il comando del Generale Enrico Morozzo Della Rocca – l’Esercito meridionale garibaldino venne sciolto aprendo un lungo periodo di polemiche e di contrasti politici.

L'incontro tra Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II, o incontro di Teano, avvenne il 26 ottobre del 1860 ed è l'episodio della storia risorgimentale con il quale si concluse la spedizione dei Mille.

Il re di Sardegna Vittorio Emanuele II aveva occupato i territori pontifici nelle Marche e nell'Umbria ed era andato incontro a Giuseppe Garibaldi, che aveva respinto il tentativo di controffensiva dell'esercito borbonico nella battaglia del Volturno e aveva completato la conquista del Regno delle Due Sicilie.
L'intervento piemontese, sotto il profilo internazionale, aveva lo scopo di impedire che la spedizione continuasse fino alla conquista di Roma, che avrebbe provocato l'intervento di Napoleone III e messo a repentaglio le conquiste effettuate.
Sotto il profilo interno, la questione delle ricadute politiche della spedizione era già stata affacciata nella lettera con cui, nel settembre 1860, Vittorio Emanuele II aveva respinto l'invito dell'Eroe dei due mondi di "licenziare il Ministero" congedando Cavour e Farini.
L'incontro avvenne una mattina autunnale molto umida e Garibaldi aveva la testa fasciata alla buona con un fazzoletto colorato e assisteva al passaggio delle truppe piemontesi, quando ad un certo momento si sentì suonare la marcia reale e gridare le parole "Il re! Viene il re!".
Garibaldi ed il suo seguito montarono a cavallo avanzando sul fianco della strada e alla loro vista Vittorio Emanuele II si slanciò per incontrarli, quindi Garibaldi si scoprì la testa fasciata gridando:
«Saluto il primo Re d'Italia ! »
Il re allungò la mano e Garibaldi fece altrettanto stringendola, i due uomini restarono con le mani unite per più di un minuto.
« Come state, caro Garibaldi? »
« Bene, Maestà, e Lei? »
« Benone.»
(Garibaldi e la formazione dell'italia, G.M. Trevelyan, pagg. 341-342)
Poi i due gruppi di piemontesi e garibaldini procedettero assieme per un certo tratto dialogando in fredda cortesia, quando Garibaldi ed i suoi svoltarono a sinistra ritornando a Calvi, mentre il re proseguiva per Teano.
«Donato il regno al sopraggiunto re, / ora sen torna al sasso di Caprera / il Dittatore. Fece quel che poté. / E seco porta un sacco di semente.»
(da La notte di Caprera in Elettra di Gabriele D'Annunzio)
Garibaldi ottenne che i volontari garibaldini entrassero, dopo una selezione, nell'esercito regolare sardo, con il medesimo grado rivestito nella spedizione e si ritirò a Caprera.
L'incontro ebbe il significato di un'adesione del generale alla politica di Casa Savoia, deludendo le aspettative di coloro che auspicavano la fondazione di una repubblica meridionale di stampo mazziniano, che avrebbe dovuto in seguito estendersi anche ai domini papali, conquistando Roma.

A Brecha na Porta Pia, Roma, Itália (La Breccia di Porta Pia) - Carlo Ademollo

A Brecha na Porta Pia, Roma, Itália (La Breccia di Porta Pia) - Carlo Ademollo
Roma - Itália
Museu do Risorgimento Milão
OST - 1880

Il dipinto è una delle opere più significative dedicate all'evento conclusivo dell'epopea risorgimentale, la presa di Porta Pia a Roma il 20 settembre 1870 da parte dell'esercito italiano, al comando del generale Raffaele Cadorna. L'operazione militare poneva fine al otere temporale del Papa, dopo numerosi tentativi di conciliazione tra Chiesa e Stato: Roma veniva annessa al Regno d'Italia, divenendone capitale. Militarmente debole dopo la caduta di Napoleone III a Sedan e il ritiro delle truppe francesi da Roma, papa Pio IX on riuscì ad ostacolare gli eventi. Lungo le mura aureliane, nei pressi della ichelangiolesca Porta Pia, grazie ad alcune cariche esplosive, venne aperta una breccia, attraverso la quale irruppero i bersaglieri e alcuni reparti di fanteria.

Durata poco più di quattro ore, la battaglia viene descritta da Ademollo con dovizia di articolari, sia nella resa dell'azione militare che nella definizione di ogni singolo personaggio.

Il taglio compositivo, l'accentuazione voluta sul movimento, l'apparire quasi evocativo, sullo sfondo, delle mura violate della città eterna, rendono l'opera una delle più riuscite edicate al soggetto. Dai volti dei giovani soldati, ognuno caratterizzato individualmente, appare la loro adesione all'ideale unitario: Carlo Ademollo rende con fedeltà quei momenti di concitazione, restituendo alla storia anche singole vicende umane, come il sacrificio del maggiore Giacomo Pagliari, alla guida del 34° Battaglione Bersaglieri.

Una visione più attenta del dipinto consente di evidenziare anche particolari curiosi sulle uniformi e le armi utilizzate: il cappello da bersagliere, detto Morettino, aveva piume di gallo cedrone, nere per i soldati e di color verde per gli ufficiali, che indossavano anche la ascia azzurra dei Savoia, il cui ricordo si ritrova oggi nel linguaggio sportivo quando gli atleti italiani sono chiamati “Azzurri”; lo zaino, in pelle, provvisto di uno sportellino per
le cartucce, poteva contenere le “provvigioni da bocca” per tre giorni, una fiaschetta di aceto o acquavite da allungare con acqua; sopra lo zaino veniva collocato, come si può vedere nel dipinto, un sacco di tela per proteggersi dal freddo, da riempire, in caso di necessità, con della paglia per diventare un materasso di fortuna. Sulle spalle del bersagliere all’estrema sinistra della scena è visibile inoltre la terza scarpa “di scorta”: essendo le scarpe ambidestre potevano essere sostituite indifferentemente. Realismo e enfasi si fondono nel dipinto di Ademollo con equilibrio, restituendo un’immagine veritiera dell’evento, testimoniato anche da alcuni scatti fotografici, come ad esempio la nota ripresa di Altobelli.

Carlo Ademollo nato a Firenze il 9 ottobre 1824, nipote dell’artista milanese Luigi Ademollo, si forma a Firenze presso l’Accademia di Belle Arti sotto la guida di Giuseppe Bezzuoli, un tardoromantico specializzatosi in vedute ma anche in dipinti di soggetto storico, al tempo molto richiesti. Aggregatosi verso il 1850 alla scuola di Staggia, paese del senese dove un piccolo gruppo di artisti, sul modello dell’Ecole de Barbizon, diede vita ad una pittura naturalistica dal vero, Ademollo frequenta il noto Caffè Michelangelo a Firenze - affrescandone anche una sala con la Disfida di Barletta - senza tuttavia aderire ufficialmente al gruppo dei Macchiaioli. La sua partecipazione alle vicende risorgimentali risale al 1859, quando prende parte, come volontario, alla seconda guerra di indipendenza. Nel 1866 è aiutante del comandante della Guardia Nazionale Toscana. Le sue doti artistiche e i suoi ideali gli consentono di essere nominato dal re pittore d’armata e di illustrare i più importanti momenti del Risorgimento italiano. Di sua mano sono anche intensi ritratti dei protagonisti di questi giorni, alcuni di loro, come ad esempio i fratelli Cairoli, legati all’artista da profonda amicizia. Professore corrispondente presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze dal 1869, muore nella sua città natale il 15 luglio 1911.


Il 20 settembre 1870 segna una data importante sia per l’Italia che per la Chiesa cattolica. Da una parte, con la cosiddetta breccia di Porta Pia, si arriverà alla definitiva unità d’Italia grazie all’annessione di Roma, e dall’altra alla fine dello Stato Pontificio e del potere temporale del papa. L’anno successivo Roma diventa capitale d’Italia, trasferita da Firenze.

La conquista di Roma faceva parte dei piani del Regno d’Italia e di Vittorio Emanuele IIper la definitiva unità politica dell’Italia.

Già nel 18 settembre 1860, in pieno risorgimento italiano, le truppe piemontesi del Regno di Sardegna riuscirono a sconfiggere l’esercito pontificio a Castelfidardo. Con questa vittoria il Regno di Sardegna riuscì ad annettere le Marche e l’Umbria, e lo Stato della Chiesa si ridusse all’attuale Lazio meno la provincia di Rieti.

Questa battaglia fu voluta da re Vittorio Emanuele II  dopo che Garibaldi, con la spedizione dei Mille, aveva conquistato tutta l’Italia meridionale.  Le regioni d’Italia del nord e quelle del sud erano divise solo dallo Stato Pontificio e ciò non permetteva la totale unione del Regno.

Il 17 marzo 1861 fu proclamato il Regno d’Italia e Vittorio Emanuele II ne assunse la carica di re. Mancava all’appello ancora la città di Roma.

L’evento che incoraggiò il re alla definitiva presa di Roma fu lo scoppio della guerra franco-prussiana. Questo evento costrinse la Francia a ritirare le proprie truppe dallo Stato pontificio che da anni lo proteggevano. L’Italia allora ne approfitta per cercare un accordo con Roma e con il papa per arrivare all’unificazione politica della penisola.

L’8 settembre 1870 Vittorio Emanuele II manda una lettera a papa Pio IXmanifestando la necessità delle truppe del Regno d’Italia di entrare nello Stato Pontificio per la sicurezza dell’Italia e della Santa Sede. Fu a quel punto, davanti al rifiuto del papa di cedere gli ultimi possedimenti al Regno d’Italia, che le truppe italiane invasero Roma: il generale Cadorna guidò l’artiglieria che riuscì ad aprire una breccia a Porta Pia nelle mura della città mettendo fine al potere temporale del papa.

Si compiva così l’annessione di Roma all’Italia voluta dal Parlamento già nel 1861. I possedimenti del papa furono limitati al Vaticano e l’anno seguente Roma diventò capitale del Regno

La risposta di Pio IX  fu quella di scomunicare i bersaglieri che sconfissero gli zuavi pontefici e dichiarare il re Vittorio Emanuele II “usurpatore delle province ecclesiastiche”. Decise di non riconoscere la sovranità italiana su Roma e nonostante la legge delle guarentigie del 13 maggio 1871, in cui Il Regno si impegnava a tutelare l’esercizio del papa e regolava i rapporti tra Stato e Chiesa, il papa si dichiarava prigioniero dell’Italia, rifiutando qualunque tentativo di accordo.

Nel 1874 emanò il Non expedit con cui vietava i cattolici italiani la partecipazione alla vita politica italiana per non legittimare le appropriazioni violente dei possedimenti papali. Disposizione abrogata ufficialmente solo da papa Benedetto XV nel 1919.

La data della Breccia di Porta Pia è il simbolo della nascita dell’Italia unita e fu festività nazionale fino al 1930, quando fu cancellata dai Patti Lateranensi voluti da Mussolini.


Panorama da Cidade de São Paulo Tomado de uma Elevação à Direita do Caminho de Itu, São Paulo Brasil (Panorama da Cidade de São Paulo Tomado de uma Elevação à Direita do Caminho de Itu) - Edmund Pink


Panorama da Cidade de São Paulo Tomado de uma Elevação à Direita do Caminho de Itu, São Paulo Brasil (Panorama da Cidade de São Paulo Tomado de uma Elevação à Direita do Caminho de Itu) - Edmund Pink
São Paulo - SP
Acervo BM&F Bovespa São Paulo
Aquarela sobre papel - 17x98 - 1823

Os Voluntários Livorneses, Livorno, Itália (I Volontari Livornesi) - Cesare Bartolena

Os Voluntários Livorneses, Livorno, Itália (I Volontari Livornesi) - Cesare Bartolena
Livorno - Itália
Museu Cívico Giovanni Fattori Livorno Itália
OST - 110x241 - 1872


Quadro a olio su tela raffigurante un numeroso gruppo di uomini in riva al la spiaggia nell'atto di salutarsi e imbarcarsi su alcune barche attraccate alla riva. Al centro della compozione, in primo piano, la figura di un soldato seduto sulla sabbia e appoggiato al propio bagaglio. Alla sua sinistra, in piedi, numerose uomini in piedi conversano tra loro. Sulla destra, propria in riva al mare, alcuni volontari in piedi si abbracciano e si salutano, mentre tre di loro, a cavalcioni su altrettanti compagni, guadano il mare per recarsi a bordo di due barche. La scena si svolge all'imbrunire, su una vasto tratto di costa che si conclude, nello sfondo, con la veduta della città di Livorno.
L’opera raffigura la partenza, il 9 giugno 1860, dell’ultimo contingente di volontari toscani, prevalentemente livornesi, a sostegno dell’insurrezione di Palermo capeggiata da Garibaldi. La tela fu commissionata a Cesare Bartolena da un gruppo di livornesi costituitosi in comitato e donata al Comune nel 1872.

Os Emigrantes (Gli Emigranti) - Raffaello Gambogi


Os Emigrantes (Gli Emigranti) - Raffaello Gambogi
Museu Cívico Giovanni Fattori Livorno Itália
OST - 150x197 - 1894

Batalha de San Fermo, San Fermo della Battaglia, Itália (Battaglia di San Fermo) - Angelo Trezzini




Batalha de San Fermo, San Fermo della Battaglia, Itália (Battaglia di San Fermo) - Angelo Trezzini
San Fermo della Battaglia - Itália
Museu Nacional do Risorgimento Italiano Turim
OST - 104x131

La battaglia di San Fermo ebbe luogo il 27 maggio 1859, quando Garibaldi, al comando dei Cacciatori, sgomberò le posizioni avanzate austriache poste a difesa di Como, si fortificò e seppe respingere un contrattacco, inducendo il nemico a sgomberare la città.
Il 17 marzo 1859 Garibaldi assunse il comando dei Cacciatori. Si trattava di una brigata leggera, di circa 3 500 uomini, senza cannoni e senza cavalleria (ad esclusione degli esploratori), male armata ed equipaggiata, ma con l'uniforme dell'esercito piemontese, animata da forte spirito combattivo e guidata da ufficiali esperti, tutti reduci delle guerre del 1848-1849.
Provenendo da Sesto Calende, Garibaldi aveva liberato Varese dopo aver affrontata e respinta, il 26 maggio 1859, la Brigata Rupprecht del tenente maresciallo Karl von Urban, uscita da Como ed ivi ritiratasi, con perdite, a seguito allo scontro ricordato come la battaglia di Varese.
Il 27 maggio i volontari prendevano la via di Como, allora la città più importante della Lombardia settentrionale e base degli austriaci. Due erano le strade a disposizione: quella meridionale, attraverso MalnateBinago ed Olgiate entrava in Como da sud; quella settentrionale (ora chiamata “garibaldina”) da Malnate deviava a nord per Uggiate e attraverso Cavallasca accedeva in Como dalle colline che chiudono la città da ovest, per una stretta chiusa a nord dal confine svizzero (oggi noto agli appassionati del Giro di Lombardia come Passo di San Fermo).
Nell'incertezza, Urban aveva schierato le proprie forze fra San Fermo, a nord-ovest, e Civello, a sud-ovest, con avamposti sul fiume Lura, sei chilometri dalla parte di Varese e le riserve al centro dalle parti di Montano Lucino. Oltre alla Brigata Rupprecht, che aveva combattuto a Varese, Urban poteva schierare la Brigata Agustin, giunta, nel frattempo, di rinforzo.
Garibaldi prese ad avanzare da Varese, attraverso Malnate e Binago sino ad Olgiate, raggiunta verso le 11:00. Di lì lasciò sulla destra il 1º reggimento di Cosenz, dando ad intendere di voler passare a sud e deviò gli altri due a nord verso San Fermo attraverso Parè e Cavallasca, raggiunta verso le 15:00.
Giunto a CavallascaGaribaldi vi pose il proprio quartier generale ed incaricò dell'attacco Medici, comandante del 2º reggimento colà presente.
Di fronte aveva un avamposto austriaco, ben fortificato nell'oratorio del villaggio di San Fermo.
Cavallasca il generale Medici decise di dare l'assalto su tre colonne: la prima colonna del capitano Cenni (una compagnia più i carabinieri genovesi) avrebbe dovuto svolgere un attacco di diversione sulla sinistra, la seconda colonna del capitano Carlo De Cristoforis, con un'altra compagnia, avrebbe condotto un attacco frontale, la terza colonna del capitano Vacchieri sulla destra, avrebbe dovuto minacciare la ritirata avversaria.
La compagnia di De Cristoforis doveva partire al segnale della "fucilata" sparata dal gruppo Cenni, con un attacco di sorpresa, ma l'inizio prematuro del fuoco da parte di alcuni volontari (ovvero da alcuni austriaci, a seconda delle versioni) fece mancare l'effetto.
De Cristoforis, credendo che quei colpi di fucile fossero il segnale per partire all'attacco, alle 16:00 uscì allo scoperto sullo stradone e venne preso di mira dai nemici appostati sul campanile di San Fermo. Un forte fuoco di fucileria lo costrinse a ripararsi in una cascina, il casale Valdomo.
Allora Medici comandò alla sinistra di appoggiare l'attacco e comandò un'ulteriore compagnia sulla destra. Con i difensori presi da tre lati, le due compagnie di De Cristoforisripartirono in un assalto alla baionetta.
La motivazione dei volontari doveva essere davvero grande se, colpito da una fucilata mortale il comandante De Cristoforis, essi proseguirono la corsa guidati dal tenente Guerzoni e conquistarono la posizione.
Il ripiegamento austriaco venne inseguito, per un tratto, dalle truppe vittoriose. Allora Garibaldi ispezionò le strade verso la città (la Valfresca e Cardano) e venne a sapere da un contadino di Cavallasca, Agostino Marzorati, che tornava da Como, lo stanziamento delle truppe austriache in città. Erano circa duemila e, il contadino aggiunse, "stavano cuocendo le vivande".
Garibaldi fece allora occupare le alture verso Como in vista della città: nel tardo pomeriggio gli austriaci, finalmente informati degli avvenimenti, presero a risalire per Cardano e la Valfresca. Si tratta di strade ripide e dominate da una serie di scoscese montagnole: i garibaldini ben appostati li bersagliarono per poi a poco a poco scendere baionetta alla mano e rimandare gli assalitori giù per le colline.
Alle 21:30 Garibaldi entrava in città dall'allora Porta Sala, oggi Via Garibaldi, mentre gli austriaci uscivano da Porta Torre, e ripiegavano su Monza, lasciando bagagli, magazzini e prigionieri nelle mani dei Cacciatori. Urban, infatti, non poteva contare sulla fedeltà della popolazione (che appena undici anni prima si era resa protagonista delle Cinque Giornate di Como) e, da buon soldato regolare, desiderava ottenere cospicui rinforzi prima di riprendere Como e la più piccola Varese.
Occupata Como, Garibaldi richiamò le cinque compagnie da San Fermo e fece occupare Camerlata, al passo meridionale della città verso Monza e Milano, per garantirsi da eventuali contrattacchi.
Gli austriaci registrarono 68 morti e 264 feriti. I Cacciatori 13 morti (di cui 3 ufficiali: De CristoforisPedotti e Cartellieri) e 60 feriti. Nessun garibaldino rimase prigioniero.

Roma ou Morte (Roma o Morte) - Gioacchino Toma

Roma ou Morte (Roma o Morte) - Gioacchino Toma
Localização atual não obtida
OST - 1863

 Il dipinto mostra garibaldini imprigionati dopo lo scontro, fra questi uno sta scrivendo sul muro il loro motto e "Viva Garibaldi".

Roma o morte è la frase che, secondo un orientamento oramai tendenzialmente convergente nella storiografia risorgimentale, Giuseppe Garibaldi pronunciò in occasione del discorso tenuto durante il raduno delle Camicie Rosse a Marsala, il 19 luglio del 1862, annunciando la partenza dei volontari garibaldini dalla Sicilia per la risalita della Penisola alla conquista di Roma, per la sua liberazione dal potere temporale del Papa, pur dopo l'Unità d'Italia compiutasi un anno prima, il 17 marzo 1861, dopo la conclusione della Seconda Guerra di Indipendenza e della successiva Spedizione dei Mille.
Dopo il rientro a Caprera, successivamente alla conclusione della fase risorgimentale che fu coronata con la proclamazione del Regno d'Italia, Garibaldi continuò a meditare di organizzare una nuova spedizione che mettesse fine all'anomalia del nuovo Stato, nel quale la città storicamente fondatrice della civiltà di cui esso si proclamò degno erede non era ancora ricompresa all'interno dei suoi confini. Per di più, Roma restava sotto la sovranità di un'autorità ecclesiastica che rappresentava l'antitesi dei valori di libertà e di indipendenza di cui il Risorgimento era stato sino ad allora portatore e fautore (vedi anche: Questione romana).
Incoraggiati inizialmente - in modo più o meno esplicito - dall'allora Primo Ministro Urbano Rattazzi, "un gruppo di volontari guidati da Garibaldi mossero dalla Sicilia per risalire verso Roma attraverso l'Italia meridionale".
Tuttavia, le condizioni politiche internazionali fecero subito comprendere che l'intento di Rattazzi avrebbe rischiato di mettere in seria difficoltà politico-diplomatica il nuovo Stato e il suo Governo, soprattutto per la netta opposizione di Napoleone III, che da sempre si era erto a difensore del diritto dello Stato Pontificio di mantenere i suoi possedimenti a Roma e nel Lazio, anche in virtù del forte appoggio e consenso sul quale la posizione di Napoleone III poteva contare nell'opinione pubblica cattolica francese.
Sbarcate in Calabria, le Camicie Rosse compresero sin da subito che non avrebbero potuto contare sulla benevolenza dell'esercito regolare di Vittorio Emanuele II (la stessa marina regia aveva cercato di impedirne, invano, lo sbarco in Calabria), e che il Governo Rattazzi aveva addirittura fatto marcia indietro rispetto alla iniziale linea politica di condiscendenza verso l'iniziativa.
Fu così che si arrivò al ben noto episodio dell'Aspromonte (Giornata dell'Aspromonte), in Calabria, nel quale le truppe garibaldine furono attaccate dall'esercito regolare e sbaragliate, mettendo così fine all'impresa del Generale, e nel quale lo stesso Garibaldi venne ferito alla coscia sinistra ed alla caviglia destra, riportando conseguenze che nel tempo lo avrebbero costretto progressivamente alla deambulazione su di una sedia a rotelle.

Transporte de Garibaldi Ferido em Aspromonte, Sant'Eufemia d'Aspromonte, Província de Reggio Calabria, Itália (Trasporto di Garibaldi Ferito ad Aspromonte) - Michele Cammarano



Transporte de Garibaldi Ferido em Aspromonte, Sant'Eufemia d'Aspromonte, Província de Reggio Calabria, Itália (Trasporto di Garibaldi Ferito ad Aspromonte) - Michele Cammarano
Sant'Eufemia d'Aspromonte, Província de Reggio Calabria - Itália
Museu Nacional do Risorgimento Italiano Turim
OST - 54x100

O Duomo de Milão e a Passagem dos Servos, Milão, Itália (Il Duomo di Milano e la Corsia dei Servi) - Carlo Canella

O Duomo de Milão e a Passagem dos Servos, Milão, Itália (Il Duomo di Milano e la Corsia dei Servi) - Carlo Canella
Milão - Itália
Gallerie d'Italia Piazza Scala Milão
OST - 69x86 - 1860/1865


The work was purchased on the antique market and entered the Collection in 1971.
Carlo Canella moved to Milan in 1842 where, on the advice of his more famous brother Giuseppe, he practised his art by representing the most characteristic views of the city, which were also the ones most in demand on the market. The Cathedral, represented from different viewpoints and in various atmospheric conditions, became a recurrent subject in his output, and was shown time and again at exhibitions in Milan and Verona between 1858 and 1867.
The version in the Cariplo Collection depicts the entrance to the Corsia dei Servi – the beginning of the ancient road that linked Milan to Bergamo – from Piazza del Duomo. Now Corso Vittoro Emanuele, the street was originally named after the Gothic church of S. Maria dei Servi, rebuilt in the Neoclassical style at the beginning of the 19th century, after which it was known as San Carlo.
The façade of Milan Cathedral  in the extreme foreground is almost completely excluded from the visual space, while the side of the building projects a cone of shade on the street thronging with people. In the heart of the city, people from all walks of life – common folk, bourgeiosie, aristocracy – vendors’ stalls and carriages are represented in a strong narrative vein that describes everyday life in minute detail. The modest, workaday aspect of the city, with all its hustle and bustle, is the protagonist of this view which, while relegating the imposing Cathedral to the sidelines, nevertheless makes it the guardian and symbol of the city.