Milão - Itália
Museu do Risorgimento Milão
OST
18-23 marzo 1848
Un’insurrezione a Milano libera la città, allora parte del Regno
Lombardo-Veneto, dal dominio austriaco.
L’iniziativa dei milanesi si inserisce nel quadro più ampio dei moti
liberal-nazionali europei del 1848-1849, al culmine della tensione con gli
occupanti austriaci, che già aveva fatto registrare scontri come quelli
avvenuti in occasione dello sciopero del tabacco nel gennaio 1948. La scintilla
fu data da una manifestazione pacifica, organizzata il 17 marzo dai cittadini
per chiedere maggiore autonomia per Milano e la Lombardia dopo che era giunta
la notizia delle dimissioni di Metternich a seguito di un’insurrezione popolare
a Vienna. Il giorno successivo la manifestazione si trasformò in un assalto che
prese alla sprovvista le unità austriache presenti in città.
I rivoltosi riuscirono a mettere in fuga gli occupanti e istituirono un
Governo provvisorio guidato da Gabrio Casati. La minaccia di una controffensiva
austriaca e le divisioni interne al Consiglio di guerra portarono alla
decisione di richiedere l’intervento militare del Regno di Sardegna: il 23
marzo le truppe piemontesi varcarono il Ticino e mossero verso Milano, dando il
via alla Prima guerra di indipendenza.
Tuttavia, la lentezza dell’esercito di Carlo Alberto e i nuovi rinforzi
giunti agli austriaci volsero ben presto la situazione a favore di questi
ultimi. Sconfitto nella prima battaglia di Custoza, il 5 agosto il Re sabaudo
firmò la capitolazione e il giorno seguente gli austriaci rientrarono a Milano.
Esattamente centosettanta anni
fa, il 17 marzo 1848 Milano era in subbuglio. Proprio quel giorno erano
giunte in città due notizie, l’una più pazzesca dell’altra: i veneziani si
erano sollevati contro la guarnigione austriaca guidati da Daniele Manin e
Niccolò Tommaseo, proclamando la nascita della Repubblica di San Marco. La
ribellione a sua volta era stata suscitata dalla notizia dei moti di Vienna che
avevano portato alle dimissioni dell’ottantenne cancelliere Metternich, regista
della Restaurazione post napoleonica al potere da quarant’anni. Tutto
l’impero austriaco era in fermento perché anche Boemia e Ungheria si erano
sollevate contro il dominio asburgico. Sembrava che tutta l’Europa fosse stata
incendiata dalla rivoluzione dopo che il mese precedente a Parigi la folla
aveva costretto all’abdicazione re Luigi Filippo.
Si
capisce bene come notizie tanto sconvolgenti una volta giunte sotto la
Madonnina avessero agitato le autorità austriache e infiammato nel contempo gli
animi dei patrioti milanesi che speravano di scrollarsi di dosso il giogo di
Vienna. Ma come si presentava Milano a metà del XIX secolo? Tanto per
cominciare molto più piccola della metropoli che conosciamo: la città, in quel
momento capitale del Lombardo-Veneto, contava circa 200 mila abitanti, stretti
nella cerchia delle vecchie mura spagnole e dei navigli.
L’insofferenza
al dominio austriaco che, eccezion fatta per la parentesi napoleonica, durava
ininterrottamente dal 1714, si era manifestata già verso la fine dell’anno
prima, nel 1847: allora i milanesi avevano inscenato un vero e proprio
sciopero, astenendosi dal tabacco e dal gioco del lotto, che costituivano due
fonti d’entrata importanti per l’amministrazione asburgica. Nel gennaio del
1848 le manifestazioni di ostilità della cittadinanza verso quelli che ormai erano
percepiti come gli “austriaci oppressori” erano state brutalmente represse
dalla polizia che aveva lasciato sul selciato morti e feriti. Insomma, il
rapporto tra governanti e governati era ormai giunto a un punto di rottura.
In
questo clima che nonostante la stagione possiamo definire incandescente, il 18
marzo una grande folla si raccolse tra la chiesa di San Carlo, lungo Corsia dei
Servi (oggi corso Vittorio Emanuele) e Piazza San Babila. I dimostranti
chiedevano a gran voce la fine della repressione poliziesca, la concessione
della piena libertà di stampa oltre all’istituzione di una guardia
civica. Di fronte a una folla che gridava sempre più forte “Abbasso la
polizia! Vogliamo la guardia civica” per tentare di placare gli animi il conte
Heinrich O’Donell, vice dell’assente governatore Spaur, fu in pratica costretto
a firmare una serie di decreti con i quali veniva incontro alle richieste della
cittadinanza ma ormai era troppo tardi: non sappiamo se per iniziativa dei
milanesi o a causa dei soldati imperiali che reagirono sparando a qualche
provocazione, fatto sta che scoppiarono tafferugli in tutta Milano.
La
sollevazione spontanea della città aveva colto di sorpresa il comandante della
guarnigione, il maresciallo Radetzky, il quale fu costretto a chiudersi nel
Castello Sforzesco, sede del comando cittadino. Da qui fece sparare colpi a
salve dai cannoni per chiamare rinforzi.
Per
resistere alle forze austriache i milanesi innalzarono nottetempo 1700
barricate, oltre a inviare messaggi agli abitanti della campagna circostante
perché accorressero in città a dare manforte alla loro causa. Per cercare di
risolvere il problema della carenza di armi gli insorti arrivarono a
saccheggiare i persino musei, tra i quali la collezione di armi antiche
dell’Uboldo, asportandone spade e alabarde. A conti fatti però, i milanesi
disponevano in tutto solamente di quattrocento fucili da caccia, alcune vecchie
pistole oltre alle armi bianche. Praticamente bazzecole in confronto alle forze
di cui disponeva Radetzky, il quale, pur isolato nel Castello, contava ai suoi
ordini circa 14 mila uomini armati fino ai denti oltre a duecento cannoni.
Nonostante
l’evidente inferiorità però gli insorti dimostrarono grande tenacia e coraggio
sfidando il fuoco dei terribili tiratori croati: “I gioven de Milan/ han
cumincia’ la guera/ col fazulet in man” cantavano i ragazzi sulle barricate
mentre le pallottole austriache fischiavano tutto intorno a loro. Intanto i
bambini dell’orfanotrofio, i piccoli “martinitt” assicuravano i collegamenti
fra i vari quartieri fungendo da staffette portaordini.
Per
coordinare le azioni di guerriglia fu istituito il giorno 20 marzo un vero e
proprio consiglio di guerra composto da Enrico Cernuschi, Giorgio Clerici,
Giulio Terzaghi e presieduto da Carlo Cattaneo. Ad esso si contrappose sin
dalla sua creazione il governo provvisorio del podestà conte Gabrio Casati,
istituito tra il 21 e il 22 marzo.
I
combattimenti cessarono il 22 dopo cinque durissimi giorni di scontri che
lasciarono sul terreno alcune centinaia di morti per parte. Quel giorno, dopo i
falliti assalti alle posizioni austriache di Porta Comasina e di Porta Ticinese
fu infine conquistata Porta Tosa (poi non a caso ribattezzata Porta Vittoria).
L’azione fu resa possibile grazie a un’intuizione dell’ex ufficiale napoleonico
Antonio Carnevali che ideò un ingegnoso sistema di barricate mobili che
consentirono ai milanesi di avvicinarsi alle posizioni austriache al riparo dal
fuoco nemico.
I
milanesi erano così riusciti a spezzare l’assedio consentendo l’ingresso in
città alle colonne di volontari provenienti dalla Valtellina e dalla Brianza. A
quel punto, per evitare di essere preso fra due fuochi, il maresciallo Radetzky
preferì ritirarsi con le sue truppe nel munitissimo “Quadrilatero” formato
dalle fortezze di Mantova, Legnago, Peschiera e Verona.
La
situazione dell’esercito austriaco in terra italiana si faceva del resto sempre
più drammatica: una ad una, seguendo l’esempio di Milano, tutte le città
della Lombardia erano insorte o si stavano preparando a farlo. Altro motivo di
preoccupazione per Radetzky era costituito dalla mobilitazione dell’esercito
piemontese che con alla testa Re Carlo Alberto di Savoia si era accampato
a Novara e da lì si preparava a marciare su Milano per dar man forte ai
patrioti lombardi.
L’intervento
piemontese era fortemente sponsorizzato dall’ala moderata del movimento
patriottico lombardo, guidato da Casati. I moderati, tutti di estrazione
aristocratica e borghese, nutrivano forti sospetti nei confronti delle
barricate, sulle quali il grido “morte all’Austria” si alternava a quello
più preoccupante di “morte ai sciuri” (“signori” in milanese). Per costoro
solo la vittoria dell’esercito piemontese in una campagna militare avrebbe
potuto assicurare la libertà di Milano e della Lombardia. Di diverso avviso era
l’elemento mazziniano, rappresentato da personaggi come Luciano Manara e i
fratelli Enrico ed Emilio Dandolo, schierati su posizioni repubblicane.
Contrario all’intervento sabaudo era anche Carlo Cattaneo, repubblicano di
orientamento federalista, per il quale affidare le sorti della Lombardia a un
Piemonte da lui ritenuto più arretrato dell’Austria sarebbe equivalso ad un
tradimento della rivoluzione.
Tra
le varie anime della rivoluzione milanese, prevalse, sempre in contrasto con
quella di Cattaneo, la linea di Casati che era poi quella moderata favorevole
ad un intervento del re di Sardegna. I piemontesi passarono il Ticino il giorno
23 marzo 1848, dando il via a quella che è ricordata come la prima guerra
d’indipendenza italiana. Come poi sia andata a finire è cosa a noi nota fin dai
tempi della scuola: l’esercito sabaudo sarà sconfitto pesantemente a Custoza e
poi a Novara il che porterà all’abdicazione di Carlo Alberto in favore del
figlio Vittorio Emanuele.
La Lombardia tornerà saldamente in mano austriaca ma nonostante il
fallimento è ugualmente doveroso ricordare le Cinque Giornate di Milano per un
fatto di importanza capitale: Per la prima volta le masse popolari prendevano
parte attiva al processo risorgimentale. Sarà però purtroppo anche l’ultima.
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